Villagers
{Awayland}
Nel 2010 Conor OBrien incise uno dei migliori dischi pop, genere per genere, dinizio decennio. Ed era praticamente allesordio, se escludiamo la parentesi con il suo precedente gruppo, The Immediate, virtualmente degli sconosciuti oltre i confini della natia Irlanda. Becoming A Jackal ottenne una buona visibilità e un discreto successo commerciale, a fronte di una vera e propria ovazione da parte della critica (nomination al Mercury Prize e premio Ivor Novello per la miglior canzone alla title-track). Da allora non si può dire che OBrien e i suoi Villagers abbiamo fatto molto per far parlare di sé, mantenendo un profilo abbastanza defilato e concentrando saggiamente le proprie energie sulla stesura del sophomore, impresa delicata per definizione, specie dopo un primo così. Se questi sforzi abbiano pagato o meno è relativo a dirsi e ognuno, ascoltando il disco, potrà farsi la propria opinione. Ciò che è evidente e innegabile nel nuovo {Awayland} è lintenzione e il bisogno dellautore di evolversi, di muovere il proprio sound, nel solco di una certa continuità, verso un orizzonte diverso, più variegato, rispetto a quello di partenza.
Limpressione è che il cantante e chitarrista abbia scelto di allargare lo spettro stilistico anche appoggiandosi con maggior convinzione agli altri componenti (o collaboratori) e che di fatto, pur mantenendo il controllo creativo e compositivo, i Villagers oggi assomigliano più a una vera e propria band che ad un progetto cantautorale. Importante, in tal senso, il contributo del pianista e tastierista Cormac Mc Curran e del batterista James Byrne, qui decisamente più coinvolti, oltre che del primo chitarrista e produttore dellalbum Tommy McLaughlin. Così facendo il folk-pop prezioso e barocco, di chiara matrice drakeiana, che esaltava il predecessore, si contamina con un sostrato electro e post wave, si asperge in sfumature jazzy e artsy, dove le tastiere prendono spesso il sopravvento sulle chitarre, lelettrica affianca (qua e là) lacustica e gli archi si fanno più rarefatti e sintetici. La scrittura sembra, in più tratti, meno brillante, ma la qualità melodica e la personalità letteraria e vocale di OBrein trovano una positiva conferma. Il tema centrale, dal punto di vista lirico, è quello del viaggio e del mare, profondo e insondabile, associato alla fuga, al subconscio, alla perdita del senso del reale: un po come se il giovane protagonista di Becoming A Jackal, per non finire nelle fauci degli sciacalli o, peggio, diventare uno di loro, abbia scelto di rifugiarsi nel sogno, in una sorta di simbolismo naif e fiabesco. Cosi in Earthly Pleasures si addormenta in bagno con lo spazzolino in bocca, sogna di essere (chissà perché) nel 1822, nel bel mezzo della guerra civile brasiliana, ritrovandosi infine al cospetto di dio (che, come molti di noi già sospettavano, scopriamo essere una donna!), in Nothing Arrived adotta un punto di vista ironicamente sartriano (Lessere e il nulla), invoca un dolce e amniotico diluvio universale (The Waves) o si lascia comporre dal ritmo dellesistenza mentre cerca di comporre una nuova canzone (Rhythm Composer).
Il passaggio di consegne rispetto al debut avviene in modo graduale e indolore attraverso brani come My Lighthouse, non a caso posta in apertura, arpeggio folkish acustico, armonie vocali raffinate e suggestive che culminano in tonalità sempre più alte e sinuose (splendido il finale), il romantico interludio strumentale per chitarra e archi della title-track, la poesia allegorica e lontanamente coheniana di In A New Found Land, i saliscendi orchestrali di Grateful Song. Questultima costituisce, per certi versi, lideale cesura fra i due lavori, in quanto percorsa da formicolii elettronici sottocutanei che, nel break centrale, affiorano in una specie di ninna nanna con la voce di OBrien smangiata da riverberi digitali. Tocchi elettronici che il gruppo inietta anche fra le pieghe di Earthly Pleasure, col suo giro dispari, la ritmica incalzante e una strofa febbricitante che ricorda i Bad Seeds dei primi 90 ma sfocia in un ritornello leggiadro e sognante, anziché nel torbido. Introducendo le novità più significative, i brani, cioè, in cui lo stile cantautorale di OBrien si fonde con arrangiamenti e suoni di scuola radioheadiana: sintesi che può dirsi perfettamente riuscita per quanto riguarda The Waves, forse il brano più bello del disco, melodia sontuosa e finale kraut sbrecciato e compresso da un crudo staccato di chitarra elettrica, molto meno nella debole Judgement Call. E se lanthemica Nothing Arrived mostra unincerta svolta pop - linciso spavaldo quasi alla Coldplay e le tastiere che richiamano Heroes di Bowie - The Bell è un pezzo in stile cinematico con louverture alla John Barry e una vena lounge-jazz che si snoda fra twang di chitarra e archi insistiti e vibranti, mentre Rhythm Composer vira su un sophisti-pop sghembo e punteggiato che svapora in una coda electro/glitch.
Come in un film di Shyamalan, i Villagers sembrano volersi avventurare oltre la frontiera immaginaria della loro musica ma senza stravolgerne il senso, mantenendo precise coordinate di riferimento.
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