Foals
Total Life Forever
Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista. Aveva ragione Caparezza, e chissà se anche Yannis Philippakis e soci l'avranno mai pensato. Le difficoltà nascono dopo aver sfondato già solo col singolo "Electric Bloom", fortunatamente remixato da decine di artisti e dj (Electric Bloom Remixes). Le difficoltà continuano con un disco d'esordio (“Antidotes”) ricco di spunti che ricordavano un po' un curioso incrocio tra Bloc Party e Interpol, shakerati con qualche suggestione synth-elettronica e arty piuttosto interessante. Le difficoltà crescono se magazine come l'NME ti spingono tra i gruppi migliori del momento.
Tant'è che, se il primo album aveva un carattere che poteva seguire un percorso vagamente electro-punk su cui c'era da lavorare, ora quest'anima è piuttosto cambiata. Si abbandona la formula dell'album in cui ogni canzone può essere un potente singolo radiofonico, e si cercano sperimentazioni più sognanti e introverse.
Ok, diciamolo subito: è un disco che ha delle idee. Poche, ma ci sono. Andare a capire quali siano le migliori e come si evolvano può essere interessante e difficile al tempo stesso, sulla scia, magari, dell'ondata synth di qualche freakerie à la MGMT (ma con suoni da Talking Heads o da new wave piena), o, più in superficie, a esperienze art indie rock maturate più a nord della loro Oxford (We Were Promised Jetpacks, Wild Beasts). Le undici tracce del cd sembrano avere tutte un percorso già disegnato e a tratti troppo ridondante. Partono spesso soffuse, lente, distanti, eteree, a creare un'atmosfera un po' dreamy (già dalla prima “Blue Blood”). Poi entrano le percussioni più ritmate (“Miami”, con il fantasma dei Cure alle spalle) che da una ballata tirano fuori una dancefloor agitata e viceversa (“Afterglow” su tutte). La voce riverberata di Philippakis si fa strada timida e distante insieme a qualche coro (“Total Life Forever”). Si sfocia spesso in qualche bel intermezzo di chitarre giocose - niente male - nei loro gridolini electro intrecciati con le percussioni (“Black Gold”).
Dopo un po', però, si rischia la stanchezza d'ascolto, tanto più che alcune canzoni sembrano partire ma non decollare mai del tutto (“Spanish Sahara”, ad esempio, che pure è segnata a metà da un'esplosione piuttosto deflagrante). Il lavoro è troppo uguale a se stesso e non trova altri percorsi oltre a quelli già dettati dalle prime tracce. “This Orient” è la tra le prove con più carattere, già singolo, coi suoi ritmi più alti e quasi da indie-pop bishopallen-iano, anche se un po' più sostenuto. “Alabaster” (dei Coldplay in laboratorio?) e “2 Trees” si pongono come gli episodi più ricercati e intensi che, come l'ultima “What remains”, abbandonano le logiche di easyness pop per risultare maggiormente articolati, sviluppandosi in un sound soffuso più maturo e caratterizzato rispetto al resto. Dove melodia e ricerca si coniugano, i Foals dimostrano di poter dire ancora la propria.
Alla fine è un disco con qualche buona idea (poche), pretese discutibili (troppe), come ultimamente se ne sono già visti. Troppi.
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