Foals
What Went Down
La chiave per spiegare questo What Went Down, in rapporto al suo predecessore, sta forse proprio allinizio dellalbum. Prelude VS What Went Down, crescendo VS prorompenza che potremmo definire, senza troppo imbarazzo, hard-rock.
Una prorompenza che, seppure le basi fra i due album siano molto simili, lascerà molto poco spazio al solipsismo arty, la cui scia post Total Life Forever era ancora chiara ed evidente in Holy Fire.
Tutto questo ci porta a puntare su Inhaler come punto di vera svolta musicale/emotiva dellintera carriera del gruppo. Il punto in cui i Foals si accorgono di non essere soltanto una band new new wave atipica (e sicuramente, di non potersi più limitare ad esserlo) ma una vera e propria rock band da arena. Le distanze da tutto quello che li circonda sono ormai prese, i Foals sono i Foals (della maturità) e qualsiasi similitudine lascia il tempo che trova.
E se Inhaler era una liberazione catartica, in mezzo a un gran lavorìo sugli strumenti e in studio, la scelta per questo quarto album è stata quella di non premere i freni (I'll drive my car without the brakes da Mountain At My Gates) e vedere cosa ne venisse fuori.
Ciò che abbiamo è un disco musicalmente più libero da ansie da prestazione, più naturale ed emotivamente più sincero.
Proprio la canzone più alla Foals (lo si può dire) del lotto, ovvero Mountain At My Gates ci restituisce questa sensazione. Tutto è al suo posto, come ci si aspetterebbe, eppure non suona come la ripetizione di un qualcosa di già sentito ma come lespansione del proprio dominio musicale. Stessa storia per la title-track, che pur non scappando alla definizione di sorella di Inhaler, riversa la stessa sostanza sonora su diversi paradigmi.
I wanted to have the reptilian part of my brain speak directly non si può che pensare allurlo finale, che ne suggella lassedio sonoro.
Il battito animale è domato e respinto sottopelle nella progressione così tipica di Albatross. Le movenze disco (come ce le hanno tramandate gli ultimi Arcade Fire) troncate dal ritmo irrisolto costantemente in crescendo e sviato dalla nostra attenzione da un raffinato arrangiamento di tastiere a mo di carillon, in cambio costante fra tonalità in minore e maggiore. Quasi non ci si rende conto di quanto sia martellante la base, con le sue leggere dissonanze e colpi di batteria elettronica.
In Birch Tree, le movenze afro-pop annacquate ritornano più percepibili, assieme ad una fascinazione disco-funk che è sempre stata nellaria. Sentire gli archi sintetici a sottolineare i falsetti, il basso ostinato e trascinante, la batteria che non indulge in orpelli ma va dritta al sodo e i rilanci dei synth sul finale. Lelettronica si insinua anche in coda allorgia percussiva di Night Swimmer, uno strano ibrido hard-world.
Il quartetto piega anche in direzione america, nella prova forse meno riuscita del disco (sentire lo pseudo-stoner esagitato di Snake Oil) in una bizzarra e momentanea convergenza verso quegli Arctic Monkeys che dellincontro fra le due sponde dellAtlantico hanno fatto tesoro.
Non è dato sapere quanto lo zampino di James Ford, qui producer e già dietro le quinte di AM, abbia influito su questaspetto. La linea scelta per la produzione è di assecondare gli umori delle canzoni, anzichè intervenire più nettamente; cè più sottrazione rispetto al lavoro fatto da Moulder per il disco precedente. Lo scarto è comunque minimo, anche in termini di qualità.
I Foals hanno bisogno di spazio, lo dimostrano le durate delle canzoni, ognuna sopra i 4 minuti, ma hanno imparato a non dilungarsi troppo e leconomia dei pezzi più lenti ne giova. London Thunder, accolta come la nuova Late Night, in realtà nasce da presupposti diversi; se lì si trattava di un placido 4/4 trapuntato di funk AOR, qui è possibile avvertire una spinta RnB nel passo felpato, più paragonabile ad una Stepson, se vogliamo.
Le qualità vocali non eccelse di Philippakis trovano il contraltare nella personalità istrionica del front-man e in una maturità vocale ormai conclamata, che lo vede a suo agio anche in tonalità più basse e registri sottilmente più impostati, così come nel classico falsetto che sfocia nellurlo che Inhaler ci ha fatto conoscere bene e di cui What Went Down ci ha rinfrescato la memoria.
Il cuore e la tecnica. Qualcosa nelle velature math dellesordio avrebbe dovuto farci alzare la guardia. Lì fra riff in palm-mute (sempre presenti, anche se in quantità ridotta) e batterie frenetiche contrappuntate da bassi sincopati, qualcosa ci rivelava già che il quartetto sapeva tenere in mano gli strumenti. Chiedere al batterista Jack Bevan, sempre più protagonista e capace di tenere in piedi un pezzo dalla struttura apparentemente semplice e ripetitiva come Night Swimmer e vero e proprio matador nel flusso conclusivo di A Knife Into The Ocean.
Proprio i 7 minuti di lenta marcia psichedelica, infusa di rumorismi, arpeggi volatili e orchestrazioni temporalesche (e accompagnata dal video magistrale di Leif Podhajsky, in un sodalizio grafico ormai assodato con la band) rappresenta il punto più alto dellalbum e forse dellintera discografia dei quattro inglesi. Merito del pathos saggiamente dosato e di una linea vocale al tempo stesso semplice e spiazzante.
Volendo fare le pulci a questo lavoro, ci si poteva aspettare ancora un passo in più nell'evoluzione (comunque con pochi pari) del sound oxoniano, o (forse più importante) l'introduzione di nuovi suggerimenti per il futuro. Forse solo questo è il neo sulla pelle di un album al quale altrimenti non si possono imputare altri difetti.
Siate sinceri, quando vi scatenavate a ritmo di Hammer non pensavate potessero arrivare così lontano, vero?
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