Spoon
They Want My Soul
In questo paradosso vivono gli Spoon: di essere una band che, esistendo da ventanni ed essendo arrivata allottavo disco, fa più fatica di altre a trovarsi nuovi seguaci, e al contempo però essere una band che esige da sé nuova linfa e freschezza all'interno di un "pacchetto" ormai consolidato (quello, diciamo, indie rock), peraltro un po' in stallo, di questi tempi, oltreoceano specialmente. Laspetto negativo dellimpasse Britt Daniel e compagni devono averlo saggiato dopo il modesto Transference (2010), loro picco nelle charts a stelle e strisce (per meriti acquisiti, evidentemente, dai dischi precedenti) ma indubbio momento di stanca a livello compositivo. Lunica via per evitare la strada verso le periferie (sorte toccata, chessò, a gente come Death Cab For Cutie) era fare un grande disco. They Want My Soul lo è. Al punto da essere uno dei lavori migliori della band texana.
Probabilmente i quattro anni di iato e le esperienze in band parallele (i Divine Fits, con Dan Boeckner, per Daniel) sono serviti per recuperare le energie, così come ha ridato vigore la decisione di affidare per la prima volta la produzione a mani esterne alla band (Dave Fridmann e Joe Chiccarelli). Ne esce un disco pieno di groove, pieno di melodie azzeccate, pieno di soluzioni strumentali efficaci, e agghindato a meraviglia.
Come spesso in passato, la costruzione dei pezzi non è particolarmente elaborata: sopra un giro di accordi elementare gli Spoon sanno jammare come nessun altro, sicché neppure abbisognano di un ritornello, anzi, quasi sempre centrano il bersaglio a furia di ripetere un hook, creando germinazioni strumentali e variazioni sul tema di puro piacere per le orecchie, vd. larrangiamento quasi chillwave, con tastiere aeree e base di solida drum machine, di Inside Out, o le rese più ruvide (e classicamente Spoon) di Do You e Rent I Pay, o la stessa title-track. Dove giocano in casa, ricordando che queste cose (ora ben poco hype) loro le fanno meglio di tutti, non vincono ma stravincono.
Il disco alterna con grande sapienza momenti in linea con la tradizione, portata allapice in episodi come Knock Knock Knock (tra una nuova I Summon You e le vette stilistiche di Ga Ga Ga Ga Ga, capace di sopportare scartavetramenti di chitarra distortissimi e fischi su acustica quasi morriconiani), e pezzi di vaga esplorazione elettronica e grande finezza nella cura del ritmo, come Outlier, ossia: come vorrebbero suonare gli Arcade Fire nel 2014, lussureggianti ma non dispersivi. Nel complesso, non cè un pezzo che segni un calo (Rainy Day e lo stomp I Just Dont Understand, anzi, tra i migliori, e poco sotto il rocknroll rivisitato di Let Me Be Mine).
Un disco in cui si proclama la propria indipendenza e limpossibilità di farsi rubare lanima nel quale gli Spoon fanno esattamente questo: stampare un proprio definitivo marchio di fabbrica, e tutti a casa.
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