Blitzen Trapper
Furr
Ecco l’America che riscopre l’America. Arrivati al quarto disco, dopo il boom del precedente “Wild Mountain Nation”, schizoide mescidanza tra Pavement e roots-rock, i Blitzen Trapper continuano nella loro ricerca della via di mezzo tra tradizione pura e indie-rock contemporaneo, e la continuano procedendo sul solco dei grandi. Già. Perché questi fricchettoni barbuti e amanti dell’autunno (bellissima la foto di decadente rusticismo seventies che campeggia nel packaging interno) saltabeccano da un mostro sacro all’altro senza la benché minima tema di profanarli, anzi, con l’irresponsabile desiderio di giocarci assieme. E i mostri sacri si chiamano Bob Dylan, Neil Young, The Band, Grateful Dead. Mica pizza e fichi.
Per iniziare un nuovo album ci vuole sempre uno stimolo di partenza, per quanto stupido. Pare che nel caso di “Furr” il pungolo iniziale sia stato il ritrovamento più o meno casuale di un vecchio piano scassato all’interno dell’edificio dove provano solitamente i cinque di Portland (non un magazzino di un robivecchi, ma quasi). Ed ecco che Eric Earley, mente pensante e voce della band, si è messo a fare il Richard Manuel. Con ottimi risultati.
Così è proprio il piano a fare la differenza rispetto ai dischi precedenti dei Blitzen, oltre a una maggiore linearità compositiva: sentire “Not Your Lover” o “Eco/Always On/Ez Con” è rituffarsi nell’americana degli ultimi sessanta, scapigliati e puristi. E se ci si aggiungono anche le moganature di lap steel di “Stolen Shoes + A Rifle”, allora il sapore del blues lo si può sentire anche tra lo smog che assedia i nostri appartamenti.
Tutto il rock pastorale triturato nelle storpiature dell’alt-country odierno si raccoglie tra gli intagli di questo album, e poco importa che il logo spiaccicato in copertina abbia un che di metallo. Qui c’è spazio solo per i freak. Per il legno. E nella deliziosa “Furr” (davvero davvero deliziosa) bastano un’armonica, una chitarra e qualche effetto sparso per ricreare su disco una foresta dove può ritirarsi il nuovo uomo-lupo occidentale. “Sleepy Time In The Western World”, titola il pezzo di apertura: tutti in letargo.
E lì si possono scovare dietro un cespuglio i New Pornographers (“War On Machines”), un piano honky tonk (“Saturday Nite”) e una batteria strascicata e agonizzante da segnarsi sul notes degli appunti (“Love U”: aperta da un urlato selvaggio). E poi, lungo il fiume, a fumarsi una cicca, Bob Dylan: “Black River Killer” ne riprende persino il cantato nasale, dietro un arpeggio squisito.
Ecco, nascosta dai boschi, in mezzo ai campi di cotone: ecco l’America che riscopre l’America, e se ne ammanta da capo a piedi. E la pelliccia, non c’è che dire, fa un figurone.
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