black midi
Schlagenheim
Mentre, nel nostro immaginario, le uniche scuole di musica, danza e recitazione sono quelle che ti fanno finire impiccato attraverso un rosone o in prima serata televisiva (che è grossomodo la stessa cosa), nel Regno Unito esiste da almeno venticinque anni unistituzione paritaria, la BRIT School, che si occupa della crescita e della formazione artistica di nuovi talenti e non per modo di dire, dal momento che alcuni di essi (Adele, Amy Winehouse, Kate Bush, FKA Twigs, Tom Holland) hanno fatto abbondantemente parlare di sé negli anni a venire. Certo, potrebbe sembrare lennesima trovata medio borghese per garantirsi un futuro e preparare lincubazione della futura classe dominante, rigorosamente liberal e bene istruita, se non fosse per le solite schegge impazzite che si inseriscono imprevedibilmente nel meccanismo. Quando Geordie Greep, Matt Kwaśniewski-Kelvin, Cameron Picton e Morgan Simpson si conoscono, tra i banchi di scuola, sono ancora tutti minorenni: è il primo contatto, ufficioso, che li porterà dapprima a condividere obiettivi e passioni e, dopo aver ottenuto il diploma nel 2017, a costituire la ragione sociale dei black midi (Conlon Nancarrow ringrazia da dietro un pianoforte meccanico). Un gruppo che, tanto per capirci, ben prima di arrivare allesordio lungo Schlagenheim (registrato in cinque giorni allo studio di Dan Carey) aveva alle spalle già un bootleg di una performance-happening con Damo Suzuki e, soprattutto, un devastante live di presentazione, curato da KEXP e catturato nel novembre del 2018 durante ledizione annuale dellIceland Airwaves.
Mi permetto, a questo punto, di interrompere la cascata di note curricolari con un piccolo aneddoto personale. Nel febbraio 2015, quasi tre anni dopo luscita del sottovalutato Piñata, scrissi un messaggio sulla pagina Facebook dei volcano!, chiedendo informazioni sulla possibilità di poter sentire del nuovo materiale da lì a breve. La risposta fu: dato che in media ci mettiamo quattro anni a scrivere un disco nuovo, forse ti toccherà portare ancora un po di pazienza. Ad oggi non vi sono ancora novità di rilievo (anche se qualcosa sembra muoversi sul versante live), ma mi piace pensare che il lascito di alcuni fra i più brillanti eredi dei Talking Heads che siano mai emersi nel Nuovo Millennio rasoio di Occam per semplificare un discorso altrimenti ingarbugliatissimo, e rimandare contestualmente alle recensioni dallora sia stato a sua volta raccolto dalle nuove (-issime) generazioni. Cè qualcosa nel cantato scomposto e sgraziato di Greep, in particolare, che ricorda le schizoidi esplosioni del primo Aaron With, le sue pantomime nevrasteniche e snervanti (bmbmbm è un esasperante funk mononota avanzato ai Dead C): uniconoclastia vocale che sfilaccia e sbrindella le sezioni strumentali, a tratti giocate sullimprevedibile accostamento di pattern ciclici e flussi di coscienza (il riff samba-kraut di Ducter silenziato e flagellato da unoleosa marea noise in crescendo).
Nancarrow, Talking Heads, volcano!, ma più in generale unidea, dominante, di denudare le radici arty e le spigolosità post punk che generarono gli embrioni della controcultura chitarristica degli anni 90, in particolare riferimento alle istanze più matematiche (il cui secondo, principale ramo di filiazione riconduce inevitabilmente alla rigorosa teorizzazione frippiana) e a quelle più esistenziali (post-core, ovvero il primo post rock espulso dal nocciolo in decadimento dellalt-core ottantiano). In questo Schlagenheim non è un disco originale, né nelle premesse né nei risultati: è però superbamente efficace, specialmente in un paio di passaggi, nellelevare questa riflessione a dignità di manifesto identitario. Langolare riff a singhiozzo di 953 (This Heat? Massacre?), costruito per esaltare la tentacolare potenza sovrumana del tocco di Simpson (quasi un Thomas Pritchard prestato allavant rock), viene contrappuntato da un arpeggiato tango slintiano e disintegrato da unimprovvisa accelerazione centripeta, una prova di forza che arriva ad un passo dal math-core. Near DT, MI sono i Big Black chiamati a svellere un palcoscenico artaudiano, qualcosa che ridicolizza alcuni dei più pretenziosi act post-core degli ultimi anni (Big Ups in testa). Assolutamente superlativa Western, una cristallina elegia americana stroncata da un attacco epilettico, la cui sequenza centrale di fraseggi afro-wave frena in un imperioso stacco per cassa dritta: e di grandeffetto anche le manipolazioni industrial che inquinano lanfetaminica no-disco-wave di Of Schlagenheim, un pericoloso incrocio fra Japan e NoMeansNo.
Le domande da porsi, a questo punto, sono essenzialmente due. La prima: Schlagenheim è un disco che sopravvive al proprio hype? Non solo: lo sopravanza, e di molto. La seconda: Schlagenheim è un disco dotato della forza (mediatica, comunicativa) necessaria per lanciare un nuovo trend, se non globale almeno areale? Assai più difficile sbilanciarsi, in un senso o nellaltro, anche se la presenza strategica di brani dal minutaggio più gestibile (come il distonico dancefloor di Speedway o le virulente dislocazioni noise nellelectro-gaze di Years Ago) porterebbero ad augurarselo. Il presente, scevro da sovrastrutture, ci racconta nel mentre di un esordio degno di essere raccontato ed ascoltato a ripetizione.
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