Porto Morto
Portofon
In una delle sue storielle più conosciute, ladorabile Daniil Charms si presta a descrivere (?) uno dei suoi personaggi: Cera un uomo con i capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, per cui dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire. Non poteva parlare, perché non aveva la bocca. Non aveva neanche il naso. Non aveva addirittura né braccia né gambe. Non aveva neanche la pancia, non aveva la schiena, non aveva la spina dorsale, non aveva le interiora. Non aveva niente! Per cui non si capisce di chi si stia parlando. Meglio allora non parlarne più. Per qualche ragione, è la prima associazione balenatami alla mente ascoltando il kafkiano testo nonsense di Kuća, singolo (?) trainante (?) di Portofon, secondo disco dellottetto zagabrese Porto Morto: Oko sebe sagradio sam kuću / Izgubio sam ključ / Ne mogu ga nać / Nitko ne moe uć / Ja ne mogu izać / Hoće li s nama? (Ho costruito una casa tuttattorno a me / Ho perso la chiave / Non riesco a trovarla / Nessuno può entrare / Io non posso uscire / Vuoi unirti a noi?). Esaurita la filastrocca autofaga, la serrata no wave su cui il bassista e cantante Roko Crnić sillaba marzialmente i propri versi si apre inaspettatamente in un brioso e leggero ritornello folk bandistico, un raggio di luce che penetra un sipario post-industriale: una tecnica di asservimento alla propaganda, forse, o più semplicemente una delle tante belle invenzioni che costellano la scrittura della band croata.
Chi vivesse di spicciole strategie per catturare lattenzione dei più recalcitranti dovrebbe gonfiare il petto in fuori e asserire, con veemente convinzione, che i Porto Morto sono lassoluta rivelazione di questo primo semestre del 2019. La promozione avrebbe forse successo, ma suonerebbe piatta nei toni, effimera nella prospettiva. Non cè alcun bisogno di dipingere i Porto Morto come fenomeni: lo sono. Se il termine non fosse stato sdoganato da anni di cattivo utilizzo e non avesse dunque perduto la connotazione positiva con il quale era originariamente stato coniato, si direbbe che Portofon (prodotto, come lomonimo esordio di tre anni fa, dal collettivo JeboTon, di cui i Porto Morto rappresentano una costola) è un disco art rock, specialmente nella stramba ed obliqua sensibilità che ne innerva i complessi arrangiamenti. Un ruolo chiave è giocato da una sezione fiati di tutto rispetto, fra il trombone di Antun Aleksa, la tromba di Juraj Borić e il sax di Marin ivković, che sin dal numero da fuoriclasse dapertura (Ne Ne Ne Ne) si propone come protagonista: scrittura scomposta e dadaista, imprevedibile, che procede per strappi e sovrapposizioni, come dei Talking Heads passati attraverso le maglie della funk-wave ex jugoslava degli anni 80. Il risultato, nella sua leggerezza calviniana, è entusiasmante. Il processo di destrutturazione procede addirittura oltre in un paio di frammenti (la sonata da camera di Bijeg stoppata in un arguto synth-mex sardonicamente lirico, la torcida folk di Sajle che evolve in una spirale zappiana), concedendosi di tirare il respiro di tanto in tanto (i preziosi riverberi rnb tra le maglie Animal Collective di Priča, il whistling synth pop di Hodaj con, alla voce, Darko Rundek degli storici Haustor) e piazzando, in tempi record, la zampata conclusiva (Sjedni è un congedo acid-wave in perfetta linea con lo storico del paese).
Altro che limitarsi a darci le piste: la costa orientale dellAdriatico è una fucina inesauribile di creatività. Bravo, momci!
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