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R Recensione

7/10

Porto Morto

Portofon

In una delle sue storielle più conosciute, l’adorabile Daniil Charms si presta a descrivere (?) uno dei suoi personaggi: “C’era un uomo con i capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, per cui dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire. Non poteva parlare, perché non aveva la bocca. Non aveva neanche il naso. Non aveva addirittura né braccia né gambe. Non aveva neanche la pancia, non aveva la schiena, non aveva la spina dorsale, non aveva le interiora. Non aveva niente! Per cui non si capisce di chi si stia parlando. Meglio allora non parlarne più”. Per qualche ragione, è la prima associazione balenatami alla mente ascoltando il kafkiano testo nonsense di “Kuća”, singolo (?) trainante (?) di “Portofon”, secondo disco dell’ottetto zagabrese Porto Morto: “Oko sebe sagradio sam kuću / Izgubio sam ključ / Ne mogu ga nać / Nitko ne može uć / Ja ne mogu izać / Hoćeš li s nama?” (“Ho costruito una casa tutt’attorno a me / Ho perso la chiave / Non riesco a trovarla / Nessuno può entrare / Io non posso uscire / Vuoi unirti a noi?”). Esaurita la filastrocca autofaga, la serrata no wave su cui il bassista e cantante Roko Crnić sillaba marzialmente i propri versi si apre inaspettatamente in un brioso e leggero ritornello folk bandistico, un raggio di luce che penetra un sipario post-industriale: una tecnica di asservimento alla propaganda, forse, o più semplicemente una delle tante belle invenzioni che costellano la scrittura della band croata.

Chi vivesse di spicciole strategie per catturare l’attenzione dei più recalcitranti dovrebbe gonfiare il petto in fuori e asserire, con veemente convinzione, che i Porto Morto sono l’assoluta rivelazione di questo primo semestre del 2019. La promozione avrebbe forse successo, ma suonerebbe piatta nei toni, effimera nella prospettiva. Non c’è alcun bisogno di dipingere i Porto Morto come fenomeni: lo sono. Se il termine non fosse stato sdoganato da anni di cattivo utilizzo e non avesse dunque perduto la connotazione positiva con il quale era originariamente stato coniato, si direbbe che “Portofon” (prodotto, come l’omonimo esordio di tre anni fa, dal collettivo JeboTon, di cui i Porto Morto rappresentano una costola) è un disco art rock, specialmente nella stramba ed obliqua sensibilità che ne innerva i complessi arrangiamenti. Un ruolo chiave è giocato da una sezione fiati di tutto rispetto, fra il trombone di Antun Aleksa, la tromba di Juraj Borić e il sax di Marin Živković, che sin dal numero da fuoriclasse d’apertura (“Ne Ne Ne Ne”) si propone come protagonista: scrittura scomposta e dadaista, imprevedibile, che procede per strappi e sovrapposizioni, come dei Talking Heads passati attraverso le maglie della funk-wave ex jugoslava degli anni ’80. Il risultato, nella sua leggerezza calviniana, è entusiasmante. Il processo di destrutturazione procede addirittura oltre in un paio di frammenti (la sonata da camera di “Bijeg” stoppata in un arguto synth-mex sardonicamente lirico, la torcida folk di “Sajle” che evolve in una spirale zappiana), concedendosi di tirare il respiro di tanto in tanto (i preziosi riverberi r’n’b tra le maglie Animal Collective di “Priča”, il whistling synth pop di “Hodaj” con, alla voce, Darko Rundek degli storici Haustor) e piazzando, in tempi record, la zampata conclusiva (“Sjedni” è un congedo acid-wave in perfetta linea con lo storico del paese).

Altro che limitarsi a darci le piste: la costa orientale dell’Adriatico è una fucina inesauribile di creatività. Bravo, momci!

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