A Don Caballero & No Age Live

Don Caballero & No Age Live

Don Caballero & No Age-Report Live 29-10-2008 Music Drome (Milano)

Stanchi, affamati ma felici. Così si arriva al Musicdrome dopo l’ennesima giornata di cortei e manifestazioni studentesche, doverosi per ogni persona un minimo interessata al bene collettivo.

Ma per una sera si mettono da parte decretini e ministri più o meno competenti per affrontare una serata quanto meno interessante a livello qualitativo e quantitativo (ben tre gruppi a esibirsi).

E così eccoci qua alle otto e un quarto, con gli spaghetti ancora in fase discendente verso lo stomaco, a vedere un’immagine quanto meno pietosa come la salita sul palco dei White Crime Circle Club. Per carità, nulla contro di loro, tanto più che il sottoscritto non li aveva mai sentiti nominare prima né ha pensato di informarsi un minimo fino all’attuale stesura dell’articolo. Quartetto belga giunto al quarto album (Pictures Of Stares, 2008) nel giro di un lustro. Discografia che sarà quantomeno da recuperare al più presto vista la buona performance della serata.

L’aspetto che mi porta a impietosirmi verso i WCCC infatti non è mica la musica, quanto piuttosto la situazione davvero comica in cui iniziano a suonare: di fronte a tre misere persone, con il sottoscritto che fa il quarto appropinquandosi a piccoli e strascicati passi verso il primo divanetto libero. Però bisogna dire che i WCCC non ci rimangono male e riescono a prenderla con filosofia e ironia. Eccoli allora a presentarsi e a domandare direttamente ai pochissimi presenti i rispettivi nomi con un sorriso stampato in volto. Simpatici insomma, ed è un peccato che siano stati piazzati ad un orario così balordo, pagando il pegno a tavole imbandite, a mercoledì calcistici neanche troppo avvincenti, a una pioggia autunnale indisponente e magari (considerata l’abituale schiera di pubblico) anche a una stanchezza dovuta a faticose scarpinate in piazza.

Nonostante ciò ci danno dentro i WCCC, e si fanno apprezzare con il loro avant-rock di squisita ascendenza newyorkese. Sulla scia degli Oneida soprattutto, ma anche dei vari Liars e Parts & Labor, mischiando quindi quell’attitudine post-punk moderna intingendola di abbondanti iniezioni psichedeliche e noise. Pagando a tratti un cantante un po’ troppo glam e indie, ma appoggiandosi su un’ottima base ritmica che vede il batterista in grande spolvero, nonostante la tenuta in pigiamino e i piedi scalzi (si spera in una campagna mediatica che spieghi ai batteristi di tutto il mondo che possono anche vestirsi in maniera normale).

Passano pochi minuti e tocca ai No Age, una delle rivelazioni più interessanti dell’anno con il loro disco d’esordio (Nouns, 2008) intriso di melodie indie alla Built to Spill e cacofonie noise alla Sonic Youth. Qualcuno li ha anche paragonati ai Nirvana, gridando al miracolo… Quegli entusiasti saranno rimasti probabilmente mortificati da una prestazione sicuramente diversa rispetto a quella che era lecito attendersi. Il duo americano infatti mostra subito caratteristiche molto diverse rispetto al disco: dove questo era intriso di melodie curate e suoni ben lustrati, qui si rimane spiazzati da un cantato spesso stonato, da un’attitudine molto più low-fi e dai numerosi momenti di pressapochismo tecnico. Eppure non ci si sente di dargli degli incompetenti ai No Age, questo no, assolutamente. Piuttosto si fa largo l’idea che i due ragazzi siano molto più scanzonati e anarchici di quel che ci si potesse aspettare. Molto più punk che pop. Molto più wave che indie. Un po’ inesperti forse, ancora lo sono, ma l’impressione è che la cosa non gli pesi molto, e che la tecnica sopraffina (che c’è, come fanno notare a tratti) e la cultura musicale assai ampia lascino spesso il campo a un alone mistico di feedback e di imprecisione volutamente gratuiti. Forse troppo intellettualismo? Forse, ma sicuramente meno di quello presente dei Don Caballero, storico gruppo di Pittsburgh pilastro del post-rock americano.

Musica colta la loro, eppure priva di ogni afona ristrettezza giovanile e già matura e solida con gli oltre quindici anni di carriera alle spalle. E che carriera, verrebbe da dire. E che esibizione, che mettono in piedi: incastri geometrici granitici e dionisiaci. Scanalature labirintiche in cui si scontrano le due chitarre tecnicamente impeccabili di Eugene Doyle e Jason Jouver, accompagnate dalla raffinata batteria di Damon Che, in cui si fanno largo le più svariate influenze jazz colte. Influenze che ricadono anche sul gruppo, che di fatto porta avanti la loro versione tutta particolare del post-rock: math-rock strumentale profondamente inserito nella tradizione di Canterbury e capace di riorganizzare profondamente la struttura del genere progressive, ora rude e heavy, ora raffinato e arty, ora claustrofobico e inaspettato, ora minimale e conciso. D’altronde il loro ultimo album, Punkgasm, era abbastanza eloquente fin dall’azzeccatissimo titolo. Piccoli torrenti e orgasmi progressive vengono proposti con grazia e potenza in una durata da canzone punk. Durata più umana dei brani e minore dispendio di energie intellettuali. Come dire il progressive privo dei difetti del progressive.

Ed è un peccato che il trio risulti alla fine un po’ scontroso e indisponente suonando appena un’ora e limitandosi ad un piccolo striminzito bis convenzionale.

Non si può avere tutto d’altronde.

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