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R Recensione

8,5/10

Bitch Magnet

Umber

Sembra, a volte, che serva un grande nome per giustificare la grandezza di un gruppo. Così ai Bitch Magnet si associa inevitabilmente il nome di David Grubbs e - di conseguenza - quello degli Squirrel Bait, primo storico gruppo del grande chitarrista americano. Il fatto è che Grubbs (allora nei Bastro) non è mai stato un membro ufficiale dei Bitch Magnet. E se comunque il suo accostamento al trio dell’Ohio è inevitabile, lo è per vie un tantino meno definibili: Bastro e Bitch Magnet hanno condiviso - oltre all’intenzione musicale - periodo, raggio d’azione e spesso anche il palcoscenico. Grubbs, inoltre, ha più volte irrobustito, come seconda chitarra, le esibizioni dal vivo dei Magnet. A livello di studio, però, l’apporto del chitarrista si limita ad una sola traccia (Valmead) sul secondo ed ultimo ellepì del gruppo, dove il nostro suona, peraltro senza farsi troppo notare, al posto del titolare Jon Fine. Un’ospitata di lusso non dissimile da quella che possono vantare, per dire, i Codeine di The White Birch. Ma niente di più. Darei dunque volentieri ai soli Sooyoung Park (basso e voce), Orestes” Morfin” Delatorre (batteria) e Jon Fine (chitarra) - con Dave Galt, seconda chitarra in questo Umber - il merito di aver partorito due album che, oltre ad essere ottimi di per sé, rivendicano un ruolo fondamentale in quel processo di trasformazione che, a partire dall’hardcore cosiddetto “evoluto” di fine anni ottanta, genererà alcune delle più affascinanti forme di post rock (e non solo) sviluppatesi poi nei novanta.

In questo senso, la parabola dei Bitch Magnet è davvero esemplare: un EP d’esordio (Starbooty - Roman Candle, 1988) originale e significativo - soprattutto in prospettiva - ma ancora piuttosto aderente ai modelli allora in auge, un secondo LP (Ben Hur – Communion/Glitterhouse, 1990) con molte delle loro intuizioni già sviluppate e definite - al punto da sfiorare, a tratti, l’esercizio di stile - e, nel mezzo, la chiave di volta del percorso costituita da questo Umber, loro primo LP e, a detta di tanti (io mi limito a concordare), loro miglior lavoro.

I Bitch Magnet si formano all’Oberdin College, Ohio, nel 1986, per trasferirsi poi in North Carolina. Una rotta che, con inevitabile approssimazione, li accosta a quella che sarà poi conosciuta come la scena di Louisville e Chicago. E infatti gli elementi caratterizzanti di quel movimento, in Umber, sono già in larga misura rintracciabili, almeno a livello di intuizione: ritmi rallentati, ma al contempo complessi e propensi a destrutturarsi, strumenti che suonano su misure diverse, partiture e sviluppi sempre più cerebrali, ricerca sia a livello di dissonanza che di contrappunto, grandi spazi strumentali e voce che si auto-relega sullo sfondo come elemento apparentemente marginale e volutamente a-melodico. Un superamento delle coordinate di genere più o meno parallelo a quello attuato di lì a poco dai Fugazi, a testimonianza di un’urgenza non più rinviabile. Ma se i Fugazi  affrontano lo scoramento di fine decade (da ricordare l’elezione di un certo George Bush dopo otto anni di presidenza Reagan) estremizzando il messaggio socio-politico e sostenendolo attraverso comportamenti eticamente irreprensibili, i Bitch Magnet sembrano volgere lo sguardo altrove, cambiando l’ordine delle priorità, preferendo una nobile catarsi alle forme esplicite di lotta. Il loro è un hardcore ormai adulto e disilluso, intellettuale e persino poetico, che concentra la direzione del proprio sguardo verso l’interiorità, la complessità e il mistero dell’individuo. Quintali di rabbia si trasformano in altrettanta mole di disperato esistenzialismo, lasciando al palo, sbigottito, un esercito di ragazzini in skate e bmx e preparando gli animi, in qualche misura, anche all’avvento del grunge. Non solo ideologicamente: il suono dei Bitch Magnet, infatti, similmente al grunge, ha alle sue origini sì la furia spigolosa e cervellotica dei Big Black e dell’hardcore/punk più estremo, ma anche (e forse soprattutto) le voglie progressive dell’hard rock anni settanta elaborate attraverso l’intensità e la sostanza melodica degli Hüsker Dü post Zen Arcade.

Motor, in apertura, si accende letteralmente. E restituisce fin da subito l’idea di come tale sostanza melodica possa essere elaborata, ancor più che dalla voce, da chitarre tanto distorte e sature quanto votate a standard armonici (giri spesso su due o tre accordi) e tese alla ricerca di una precisa aderenza tra arrangiamenti ed evoluzioni delle strutture. Decisamente dotati tecnicamente, poi, i Magnet si poterono addentrare in spazi di ricerca e sperimentazione, anche a livello ritmico, che per tanti loro colleghi restarono sempre preclusi. Navajo Ace, per dire, sfuriata punk-core di due minuti e poco più, sarebbe anche un pezzo piuttosto classico, non fosse che le parentesi di calcolata (è il caso di dirlo) potenza ritmica che racchiudono il pezzo preannunciano qualcosa di completamente nuovo all’orizzonte. Esemplari, in senso più assoluto, possono invece essere considerati Goat-Legged Country God, mirabile bilanciamento di dissonanze, progressioni armoniche e complessità ritmiche, e Joan Of Arc, che cela i suoi riff hard rock dietro una batteria roboante - ma piena di apparenti stenti - e nella spiazzante sovrapposizione/alternanza delle misure. Brani che evidenziano anche l’originale “maniera” di contrappuntare basso e chitarre tipica del gruppo (e di tanti a venire), con i singoli strumenti che concorrono spesso a costruire le (dis)armonie degli accordi voce per voce. Il basso gioca spesso su intervalli inusuali, evitando per quanto possibile le toniche e contribuendo così a creare frizioni, vuoti e quell’inconfondibile tensione spaziale fra gli strumenti; oppure, attraverso brevi figure complesse, assume qualità di completamento melodico come se fosse una chitarra anch’esso.

Le quattro corde sono addirittura protagoniste assolute nella lenta Douglas Leader, brano che apre orizzonti ancora diversi, stendendosi in un lungo sussurro di psichedelia appena lambita, con le chitarre che si limitano a gestire risonanze senza essere mai effettivamente percosse. Un genere rivoltato come un calzino e un’estremizzazione di ciò che già in Clay il gruppo aveva sviluppato: la riduzione all’osso della forma “ballad” tradizionale, con la glaciale intensità che da tale sospensione e contrasto di elementi deriva. La stessa - anche se a tripla velocità - che farà grandi i Codeine.

Big Pining esalta il misto di ritmo, potenza e melodia dei Bitch Magnet, con punte di misurata epicità nelle armonie e nel palm-mute che strozza il gonfiarsi delle chitarre, e un ritornello all’apparenza ingenuo (in realtà mandato a memoria da molti negli anni a seguire) che è la cosa più orecchiabile del disco e della loro discografia tutta. Punch And Judy, similmente, si muove con une certa lentezza, ma riesce ad essere, oltre che un autentico pugno nello stomaco, anche un grande risultato stilistico: si fondono, qui, praticamente tutte le influenze del gruppo, dall’hard rock a certo colto noise chitarristico, disegnando però, al contempo e sulla scia di quanto già fatto da precursori come i Blind Idiot God, quegli scenari futuri in cui si muoveranno da una parte Hoover, Rodan e June of ’44, dall’altra il movimento math, dai Dazzling Killmen ai Don Caballero.

Infine, se Joyless Street prende le mosse da un’idea molto post punk (e molto Joy Division nello specifico, con quel basso pulsante su due note) e comprime i suoi due minuti di ritmi svisati in una struttura progressiva dal bel finale, Americruiser, in chiusura, è il brano che pone definitivamente il gruppo nel novero dei grandi innovatori: pericolosamente vicino agli Slint (stessa atmosfera catatonica, stesse tipiche dissonanze, stesse pulizie e deflagrazioni di chitarra, stessa voce recitata), impone quantomeno di accettare il reciproco influenzarsi delle due band. Se infatti è vero che Tweez fu registrato nell’87 (anche se pubblicato, in un numero esiguo di copie, solo nell’89) e che, quindi, presumibilmente i Magnet conoscevano il suono del gruppo (almeno dal vivo), è anche vero che Americruiser è molto più vicina agli Slint di Spiderland che a quelli degli inizi. Nel senso che, al di là della sperimentazione, il brano riesce a farsi riconoscere, semplicemente, come “canzone”. Caratteristica che è già una cifra assoluta dei Bitch Magnet in ogni traccia di questo Umber e che gli Slint, invece, raggiungeranno più compiutamente nel loro ellepì del 1991. Influenza reciproca, appunto, senza nulla togliere - e ci mancherebbe - al fondamentale quartetto di Louisville.

Dopo lo scioglimento, e a conferma della creatività a tutto tondo di questi musicisti, Park andrà a formare con Mac McCaughan dei Superchunk gli ottimi Seam, Delatorre sarà alla batteria nei più sfortunati Walt Mink, mentre Jon Fine entrerà nei Vineland e sarà protagonista, a fine anni novanta e in sostituzione del dimissionario Mike Banfield, di alcune date live con i Don Caballero. È quasi una regola, da queste parti: musicisti poliedrici e di grandi visioni, incapaci di portare avanti un progetto oltre il tempo strettamente necessario a definirlo, ma perfettamente in grado, quando l’alchimia è quella giusta, di scrivere pagine di suono fondamentali e indimenticabili anche se sperse nella più sotterranea e negletta storia della musica.

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Voto degli utenti: 8,4/10 in media su 7 voti.
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C Commenti

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fabfabfab alle 11:24 del 5 maggio 2012 ha scritto:

Gran disco. Gazzola giusto un po' competente in materia. Ma poco eh...

FrancescoB alle 8:53 del 6 maggio 2012 ha scritto:

Disco straordinario, di cui sono innamorato da tantissimi anni anche perchè mi ha aperto le porte di un mondo intero. Inteso e toccante come pochi, rock come pochi.

Grandissima recensione Paolo.

Marco_Biasio (ha votato 8,5 questo disco) alle 13:44 del 6 maggio 2012 ha scritto:

Mai sentito nominare. Inutile dire che questo saggio travestito da recensione me lo farà recuperare al volo...

Suicida (ha votato 8 questo disco) alle 9:24 del 9 maggio 2012 ha scritto:

Se penso che Grubbs ha fondato a 16 anni un gruppo come gli Squirrel bait mi viene la pelle d' oca: genio. E' vero quello che dice Paolo, ossia che formalmente David non ha apportato tantissimo alla band non essendone un reale componente, ma c'è da dire che il fermento artistico di quegli anni in America era un tutt' uno che prescindeva dai singoli nomi Bastro, Bitch magnet e compagnia bella. C'era un' urgenza espressiva sublimata secondo me nel grande istinto di Grubbs.

4 stars sia alla recensione che al disco.

Marco_Biasio (ha votato 8,5 questo disco) alle 19:12 del 26 settembre 2012 ha scritto:

Questo disco, in ogni epoca, ad ogni latitudine, suscita sempre e solo lo stesso commento: \m/

bargeld (ha votato 8 questo disco) alle 19:41 del 13 maggio 2013 ha scritto:

Recensione monumentale, disco bellissimo. Se posso, però, mi tolgo dall'"a detta di tanti" e gli preferisco Ben Hur. Sarà (sicuramente) più di mestiere, "impastato" e dilatato, ma è uno dei miei ascolti della vita oltre che un disco, "a detta mia", gigantesco.