Tool
Lateralus
Sin dalla sua nascita, persa nella notte dei tempi, luomo è rimasto affascinato dallimmaginifico ideale della perfezione, che si manifestava intorno a lui nelle più svariate forme, che solo la natura sa dare alle proprie creature. E, pur conscio dei propri ed innumerevoli limiti, ha ricercato alacremente di avvicinarsi il più possibile a questa magnifica utopia, mediante il suo sfaccettato e stratiforme genio. Ovunque, in ogni epoca ed in ogni luogo, cè stato qualcuno che ha deciso di intraprendere questa missione titanicamente impossibile, affidandosi tanto ad una scrupolosissima dedizione quanto ad una piena coscienza di sé e del proprio potenziale, cercando di migliorarsi, giorno dopo giorno, pur sapendo già che la meta suprema era destinata a fallire.
Ma molti ci sono andati vicini, molto vicini. Pensiamo a Leonardo da Vinci, instancabile inventore, creatore e studioso di decine e decine fra le maggiori discipline distruzione, dalla matematica, alla biologia, alla scultura, alla pittura, allarchitettura, alla letteratura. O ancora, ai leggendari musicisti classici: Bach, Chopin, Beethoven, Verdi, Mahler. E dobbiamo concedere un occhio di riguardo anche a Leonardo Fibonacci, matematico fiorentino del Rinascimento, noto per aver scoperto la cosiddetta spirale geometrica che da lui prende il nome. Fibonacci, infatti, costruendo la sua teoria, scoprì che un qualunque numero della serie risulta essere la somma delle due cifre che lo precedono. Ad esempio, il 5 viene preceduto dal 2 e dal 3 (2 + 3 = 5). E quindi, si arrivò a scrivere 1-1-2-3-5-8-13
Da qui, Lateralus. Un altro mondo.
Largomento che stiamo per trattare è talmente complesso e, allo stesso tempo, delicato, da non poter essere trattato con sufficienza o, comunque, superficialità. Occorre concentrazione, obiettività anche se, temo, di quella ne resterà poca e soprattutto preparazione. Non avrò la presunzione di possedere, anche in minima parte, una di queste tre caratteristiche, ma in ogni modo mi accosto a parlarvi di questo disco e di questa band con la stessa trepidazione che può provare un bambino di fronte ad un supereroe.
Signori e signore, si parla di Tool. Non una formazione qualsiasi: i Tool.
Nati a Los Angeles, nel culmine dellera grunge, i quattro musicisti americani (Maynard James Herbert Keenan, voce: Adam Jones, chitarra elettrica; Paul DAmour prima, Justin Chancellor poi, basso; Danny Carey, batteria) esordirono sul mercato discografico nel 1992, con un EP dal nome Opiate. Lalbum vero e proprio, Undertow, arrivò solamente lanno successivo. Pregno di strascichi post-grunge, dal mordente sonoro serrato e sostenuto, mostrava in pratica solamente il lato aggressivo della band, per certi versi ancora acerba ed immatura. Con laddio di DAmour, e il conseguente arrivo di Chancellor, il complesso si trasfigurò completamente. Tre anni di silenzio: tre anni di meditazione, necessari per elaborare quindici nuove canzoni, necessari per distaccarsi completamente da ogni possibile etichettatura, necessari per sviluppare una nuova sensibilità progressive, oscura, limacciosa, interiore. Ed ecco spuntare fuori il capolavoro: Ænima. Uno dei dischi, se non il disco, fondamentali degli anni 90. Oltre settanta minuti di claustrofobia lisergica, asfissiante, poderosa.
Poi, ancora cinque, lunghissimi anni.
È solo agli inizi del 2001 che si cominciano a spargere le voci sul nuovo lavoro dei Tool: il titolo, provvisoriamente Systema Encephàle, solo in seguito Lateralus, esce nella primavera dello stesso anno. Tredici tracce in totale, per settantotto minuti abbondanti.
E nulla sarà più come prima.
Tutto, allinterno dellalbum, è predisposto secondo la più rigorosa delle disposizioni geometriche. Tutto è calcolato, ragionato, freddamente elaborato, tutto viene incastonato con una precisione certosina. Nulla è lasciato al caso, nulla è frutto di improvvisazione. Ma il disegno di progettazione è talmente vivido, ricco, elaborato e inventivo da sembrare alieno, asettico extraterrestre.
Nellartwork è rappresentato un uomo. Un uomo traslucido, che viene ripreso in ogni pagina del libretto. Un uomo che, foglio dopo foglio, viene letteralmente scorticato, per apparire integro in tutta la sua debolezza. Umana, per lappunto. Si possono osservare tutti gli organi, cuore compreso, che appaiono sotto lo strato cutaneo. Per poi finire con il cervello dellinpiduo, nel quale si può scorgere la parola God. Un anello di ricongiunzione che si chiude, con uno scatto secco.
E la musica. La musica
Con un cigolio meccanico, le danze vengono aperte da The Grudge, un buco nero, fosco e psichedelico, dove riff roboanti e metallici si contorcono, subendo improvvise accelerazioni, o spiazzanti rallentamenti, in mezzo ad una nebbia elettronica. La voce segue i dettami dei controtempi percussionistici dettati da Carey, un vero mago dietro le pelli: ruvida fra limponente monolite sonoro di Jones e Chancellor, morbida nellarpeggiato cibernetico, sognante fra le dense brume dei feedback sfrigolanti, in un continuo, meccanico ballo, fatto di doppi pedali, cambi di tempo, accordi chiusi ed ossessivi, urla poderose.
Lintermezzo sonoro dellacustica distorta di Eon Blue Apocalypse serve ad introdurre il subdolo macigno di The Patient, una sorta di trasposizione dei Pink Floyd in una notte gelida, senza stelle, dove il tempo si perde e la cognizione di sé stessi anche. Tutto è alterato, meccanico, senza speranza: le caligini condensate che appaiono nellorizzonte vengono sconvolte e ribaltate da un continuo marasma di riff, come se Gilmour stesse combattendo contro dei demoni infernali, sostenuto da una scarica balistica di doppia cassa, traballante e terremotante. Ed il tutto è reso ancora più cupo dalle parti vocali, quasi disperate nellultimo, grande grido daiuto.
Un ennesimo intermezzo, che riproduce il miagolio di uno dei gatti di Maynard mentre viene strozzato (Mantra) è il preludio perfetto per Schism, il pezzo, se possibile, più terreno ed umanamente concepibile dellintera opera (non a caso, primo singolo estratto). Questa volta, ad essere tirati in ballo sono i King Crimson: quellunico riff, angoscioso nella sua monotonia, sembra rimbalzare da una parte allaltra dellopprimente casa di specchi nella quale i Cremisi sono stati rinchiusi, a tradimento, dai quattro losangelini. Quella cantata da Keenan è quasi una nenia, sonnolenta e regolare, che annega in un mare di drumming sconnessi. E luniverso, pian piano, si espande, a ritmo sistolico.
Il binomio interludio/brano continua anche con la successiva divisione, in Parabol e Parabola. Se la prima sembra essere suonata sugli altopiani tibetani, tanta è la metodica spiritualità che si vi si respira dalla voce, bassa e lamentosa, alle chitarre, distanti, ipnotiche e riecheggianti , la seconda è la sorella cattiva, lalter ego mostruoso. Basta un repentino cambio di feedback, e la creatura sussulta, attraversata dalla corrente elettrica, per poi mutare in una spaventosa allucinazione. Mai come ora, i Tool si sono soffermati alla ricerca del proprio io interiore, tra picchi di sofferenza e constatazioni dal retrogusto ascetico (This body / this body is holding me / be my reminder here that I am not alone / in this body / this body is holding me / feeling eternal / all this pain is an illusion): è forse la droga la sostanza che permette queste percezioni extrasensoriali? Non è dato saperlo: ma viene davvero la pelle doca nel finale quando, dopo gli ultimi sconquassi metal e i guaiti rabbiosi di Maynard, si crea un muro sonoro dalla potenza vibrante, quasi mistico, che discende sui timpani dellascoltatore come manna dal cielo, commovente ed emozionante. Ed è una spirale magnetica che sale in alto, per poi collassare su sé stessa e disperdersi nellinfinito. Il rispettivo video, diretto da Jones, è quanto di più artistico si potesse prevedere, un piccolo film, schizzato e metaforico, la cui visione è assolutamente consigliata.
Se quanto fatto finora sembrava inumano, quasi divino, bisognerà aspettare la seconda parte per rendersi conto che, quelle ascoltate, altro non erano che bazzecole. Se avevamo ascoltato un mondo, ora davanti a noi si apre un universo. Pieno di sorprese e di mutamenti.
Abituati comeravamo ai rintocchi prog e alle dispersioni psichedeliche, dobbiamo subito ricrederci e focalizzare lattenzione su altre sfumature. La ripartenza, infatti, è affidata ad una delle canzoni se non la canzone- più violenta nellintera storia dei Nostri, Ticks & Leeches. Carey si supera, letteralmente: se prima lo consideravamo un mago, ora dobbiamo vederlo sotto una nuova luce, quella dello stregone. I tempi che crea sono così discordanti e veloci che facciamo appena in tempo ad accorgerci delle sature distorsioni che accompagnano chitarra e basso, o delle urla disumane, poco meno rapcore, che ci regala il buon Keenan. Tutto il pezzo si snoda attraverso un esoscheletro prettamente hardcore, serrato, brutale e veloce nonostante lingombrante durata finale, che nelle decelerazioni sviluppa alcune propaggini di ribollente prog, largamente contaminato da spunti elettronici e da bisbigli incomprensibili.
Ma la vera e propria perla di tutto il disco è la title track, nove minuti e ventiquattro di musica, nata solo per divenire leggenda. Già da quellarpeggiato occulto che colora di mistero lincipit, per poi esplodere in unordinatissima sfuriata metallica, si capisce quale meraviglia si stia dipanando nelle nostre orecchie. Il vero e proprio incanto, in ogni caso, è rappresentato dalle liriche o, meglio, dal loro assetto. Il testo, infatti, viene volutamente sillabato in modo da creare unipotetica sequenza di Fibonacci: una soluzione così cervellotica ed insolita da non apparire chiara ai primi ascolti. Ma tantè: provare per credere. Black (1) / then (1) / white are (2) / all I see (3) / in my in-fan-cy (5) / red and yel-low then came to be (8) / rea-ching out to me (5) / lets me see (3) / as be-low, so a-bove and be-yond, I i-ma-gine (13) / drawn be-yond the lines of rea-son (8) / push the en-ve-lope (5) / watch it bend (3). Talmente assurdo da essere vero: il genio di Fibonacci risorge, glorioso, in mezzo ad una serie di riff ruvidi e sotto un passaggio di doppio pedale. Ma, ricordiamo, si sta parlando di Tool, nientaltro che un altro, grandissimo ingegno.
Da questo momento in poi, lultimo contatto con la Terra viene definitivamente interrotto. Si viaggia in una dimensione parallela, onirica e narcotica.
È un compito ingrato, quello del tridente Disposition, Reflection e Triad. Con circa ventitré minuti a disposizione, devono permettere, se non creare, fluidità con il mattone sonoro creatosi alle spalle, un Big Bang musicale che sta facendo crollare le fondamenta basilari del suono moderno. Sembrerebbe davvero impossibile riuscirci: eppure, non solo i quattro ce la fanno, ma vanno oltre e arrivano a comporre un passaggio ancora migliore. Una full immersion in un tunnel lisergico, estraniante, incredibilmente introspettivo, lungo ed estremamente elaborato.
Una galleria che parte da Disposition, pezzo dolce ed armonico, che viene più volte attraversato da una vena di suggestione tribale, grazie agli arabeschi tracciati dalla chitarra di Jones. Il respiratore viene staccato: il sortilegio di Reflection può finalmente avere inizio. Immersioni new age, percussioni gorgoglianti che segnano il tempo con incredibile perizia, chitarra e basso che si fondono in un unico, grande, ammaliante strumento, pronto a lanciare le sue onde radio magnetizzanti e seducenti, flauti di Pan che serpeggiano in ogni pertugio, feedback che alzano la testa e si risvegliano, improvvisamente, densi e metodici. Le parti vocali sembrano essere in secondo piano, come cadute in una trance incontrollabile. Non cè bisogno di perpetrare rabbia, si avverte solo un senso di grande pace interiore, anche nei momenti meno controllati, dove le chitarre si scindono e disperdono per la terra i propri acidi. Ma non cè rancore, né tantomeno vendetta. Solo una rassegnata meditazione, che trascende nellincommensurabile.
Lenta e silenziosa, arriva anche Triad, la strumentale, lultimo tassello che mancava a Lateralus, se di mancanze si può parlare. Questa volta, però, il sonno eterno è finito. Le chitarre si sono risvegliate dal loro assopimento e, con esse, si è riaccesa la fiamma ossidrica del furore metal. Un vero e proprio inabissamento nella psichedelia più terribile e recondita, in un oceano di controtempi e di riff cupi e possenti, sempre più violenti e decisi. Un bagno che stordisce e, allo stesso tempo, rigenera.
Potrebbe essere finita qui. Potrebbe. Ma non per i Tool.
Lepitaffio è firmato Faaip De Oiad, una conversazione telefonica fra due persone non meglio specificate, disturbata da continui pizzicori industrial, nella migliore strategia Nine Inch Nails, dove nulla si riconosce chiaramente se non quel ronzio meccanico, continuo, quel loop cibernetico che gira, gira, gira. E chiude. Rimane solo il silenzio.
Signori e signore, in questo album cè scritto il genoma del rock. Il passato, il presente, il futuro, limmaginabile, linimmaginabile, limpossibile. Il chiaro, lesatto, lastruso. Inascoltabile per chi non abbia, nel proprio inconscio, una capacità di sopportare settantotto minuti infernali. Settantotto minuti che hanno cambiato la musica. Settantotto minuti perfetti. Non una macchia, non una sbavatura. A qualcuno potrà sembrare prolisso, pedante, fin troppo pastoso, addirittura (!) un mero esercizio di classe, un inutile sfoggio di bravura, o ancora unopera glaciale, fredda, senza sentimenti.
Pensatela come volete. Una cosa è certa: Lateralus è la Perfezione, con la p maiuscola, fatta musica. La Perfezione che molti hanno cercato e che solo quattro, al momento, hanno raggiunto. I Tool.
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