R Recensione

8/10

Don Caballero

American Don

L’inaspettato successo pop di una band indubbiamente indie come i Battles, con il loro Mirrored (Warp, 2007), apre nuovi scenari su di un genere in evoluzione e su di un mercato discografico assolutamente stravolto dalle nuove tecnologie, sia per ciò che riguarda i canali distributivi che per la formazione (e la dissoluzione) di gusti e tendenze.

È quindi interessante voltarsi indietro e scavare verso le radici di un fenomeno. Verso scene musicali che per anni hanno ripetuto percorsi abituali. Rituali di creazione e velleità di innovazione nello stile e nell’attitudine della musica rock, sempre in fondo nello stesso modo e, soprattutto, con i medesimi tempi, fatti di etichette indipendenti, fanzine a tiratura limitatissima, passa parola e giornalisti musicali più o meno illuminati ad indicare le direzioni cui rivolgere l’ascolto e gli acquisti. Niente lettori mp3, nessun blog, niente myspace, niente peer to peer.

Ed in questo gioco di pseudo archeologia sul recente passato è inevitabile scorgere l’ombra del math rock e dei suoi paladini i Don Caballero.

Discendenti diretti, a loro volta, della schiera di artisti dell’etichetta hardcore SST (come Minutemen e Black Flag) esordiscono nel 1993 con For Respect (Touch & Go), inaugurando la loro stagione di rock strumentale frutto di influenze varie. Dagli immancabili Slint a Neil Young, dalla scena no wave newyorkese al prog-rock dei King Crimson.

Ed è appunto American Don, pubblicato nel 2000 da Touch & Go, l’ultimo album dei Don Caballero a vedere la collaborazione del chitarrista Ian Williams (già attivo comunque in un progetto parallelo, gli Storm & Stress, dal ‘97), attuale fondamentale membro dei succitati Battles. Assente invece in questo disco proprio l’altro chitarrista Mike Banfield, cofondatore del gruppo, insieme al talentuoso batterista Damon “Che” Fitzgerald, durante l’estate del 1991 a Pittsburgh.

Caratteristica di questo album è la ritmica della batteria meno strabordante e impetuosa dei precedenti (2 del 1995 e What Burns Never Returns del 1998), in favore di un insieme un poco più lineare, apparentemente più ragionato (come in The peter criss jazz, forse il brano più vicino alle suggestioni dei futuri Battles, con le sue incursioni elettroniche). Con un Williams meno vulcanico, votato ad una scelta più minimalista di temi e melodie. Linee chitarristiche ripetute ossessivamente in loop di matematica precisione (Fire back about your new baby’s sex), ad incastrarsi nel pur sempre energico drumming metronomico di Damon Che, più attento però alle evoluzioni che all’impatto sonoro (Ones All Over the Place e I never liked you).

Geometrie caotiche a scombinare la struttura di brani che proprio quando sembrano rivelare dove i tre vogliano andare a parare mutano con improvvise accelerazioni, inaspettati cambi di ritmo e riff intricati (A lot of people tell me and ones all over the place), rendendoli mai scontati e capaci di catturare l’ascoltatore.

La produzione dell’album è firmata dall’inesauribile Steve Albini.

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Voto degli utenti: 7,1/10 in media su 6 voti.
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C Commenti

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DonJunio alle 20:42 del 25 febbraio 2008 ha scritto:

bel ripescaggio

Questo lo ascoltai soltando di sfuggita: dei Don Caballero amo molto il primo album, squadrato e apocalittico, e sopratutto "II", più raffinato e autentico punto di partenza del math-rock moderno di cui si riempiono la bocca tutti gli odierni fan dei Battles. Dovrò recuperarlo anche io.