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R Recensione

7/10

The Austerity Program

Beyond Calculation

Thad Calabrese, di Brooklyn, è un apprezzato ricercatore di gestione finanziaria pubblica e no profit al NYU Wagner di New York. Justin Foley è un sindacalista del Queens. Sono entrambi sposati e, in due, hanno cinque figli. Il primo, nel tempo libero, suona il basso, il secondo la chitarra. Quale il punto di contatto immediato? La passione comune per i Bolt Thrower, ad esempio. O più semplicemente un gruppo, il loro gruppo: The Austerity Program. Tirare pugni agli specchi e fissare un microcosmo infranto con gli occhi truci dello skin di “Damaged”, oggi, non serve più. Si combatte il capitalismo invisibile non con l’urlo manifesto, ma da guerriglieri urbani, via mimesi e assimilazione: riga in parte, giacca e cravatta, ventiquattr’ore. Con il coraggio e l’incoscienza di due adulti nel corpo e nello spirito.

Dopo una vita passata su Hydra Head, produttivamente morta sul finire del 2012, “Beyond Calculation” (secondo full length del duo, a sette anni di distanza da “Black Madonna”) si propone come l’uscita di punta della neonata Controlled Burn, fondata dallo stesso duo e dai compagni di merende Nonagon. Un oceano di eventi e di sconvolgimenti, a prendere in considerazione solo quelli pubblici e a tralasciare i personali, separa la prima fase di The Austerity Program dalla seconda: una devastante crisi economica, politica e morale, due mandati presidenziali per l’eterna promessa Obama, la recrudescenza del radicalismo islamico, il razzismo culturale del Nuovo Millennio, il dominio acquisito dei social network. Reagire a tale e tanta invasività sembra impossibile. L’appello del duo newyorchese si articola attorno a pochi e fondamentali assunti: limpidezza espositiva, reiterato minimalismo strumentale, imbastardimento semiotico (strumentazione analogica e ritmiche digitali), integrità d’intenti anche a scapito della visibilità. Onestà intellettuale rara a trovarsi, oggigiorno, e che lascia profondamente il segno su “Beyond Calculation”.

Tutti i brani, come da tradizione, sono distinti da un solo numero: piccoli ingranaggi di un discorso infinitamente più complesso ed organico. Se lo desiderate, leggetevi fra le righe la metafora dell’atomizzazione della condizione umana. La forza centripeta di pezzi come “Song 30” (bassi urticanti sulla scia dei Big Black, chitarre rugginose in coda agli Shellac) rimane, oggi come ieri, devastante ed inalterata. Strabiliante è, per un organico ridotto così all’osso, l’intrico di suoni e sfumature che, accavallandosi, erigono sovrastrutture di tutto rispetto. Parlare di un arrangiamento Refused per “Song 33” è, forse, esagerato, tenuta in considerazione anche la diversa e più cadenzata prosodia: si tratta, in ogni caso, di un post-core sferragliante e disturbante, d’impatto immediato e costruzione lineare che, tuttavia, ad approfondita analisi rivela non comuni capacità di scrittura (una stratificazione sotterranea vicina alle meraviglie dei Genghis Tron di “Board Up The House”). Mai si arriva al parossismo grind, ma la violenza delle bordate di “Song 32” ha molto da insegnare: cavalcata strumentale in crescendo interrotta da un secco break elettronico, ricostruzione di matasse chitarristiche quasi cyber-math, finale liberatorio. È una condizione che si ribalta nell’apocalittica, conclusiva “Song 37”, dove le strofe disperatamente cantate da Foley rimangono completamente nude, in attesa della saturazione successiva e del cerebrale, chiaroscurale gioco di contrafforti (gli American Football votati alla siderurgia?) del ponte centrale.

Ha avuto scarsissima eco la pubblicazione di “Beyond Calculation”, almeno in Italia. Un’autentica occasione persa, un rimpianto che cresce all’aumentare degli ascolti: ignorare l’ariete noise che, stolido e coriaceo, erompe dagli armonici cripto-jazz di “Song 35”, o la frenesia matematica dell’interplay di “Song 39”, ci paiono francamente peccati capitali a cui rimediare, ancora una volta, ritorcendo contro la società liquida baumaniana le sue stesse armi. 

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