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R Recensione

7/10

Mike Watt

Hyphenated-Man

Dio perdona, Mike Watt no. Così, nella più dylaniana delle metafore, Mike brings it all back home, riporta tutto quanto a casa. E che razza di casa, ci aggiungeremmo volentieri in calce, lasciando il savoir-faire al tempo (ristretto) che trova. Un abitacolo donde sono passati i fasci nervosi ed i centri di controllo del rock a stelle e strisce dell’ultimo trentennio. Ogni sfumatura possibile, s’intende: dagli scatti hardcore alle fotografie college in seppia. Per i più pragmatici, nulla di cui stupirsi, non vi è niente di nuovo, la solita minestra. Che tuttavia si colora, questa volta, di una libera attitudine al libero incastro, al gioco musicale, al divertimento di razza senza troppi scopi secondari. D’altra parte, cosa ancora deve dimostrare al mondo il bassista di Minutemen, fIREHOSE e Stooges, se non il perpetuo rinnovamento delle proprie facoltà compositive? La gioia di suonare compiuta in sé stessa, ultimamente un po’ scolorita a (s)vantaggio di tanatoici salti carpiati nell’avantgarde radical-chic (vedi i già disciolti Floored By Four) ritorna ad essere motivo primo del disco in questione.

Grazie a “Hyphenated-Man”, almeno ideologicamente, si ritorna indietro di ventotto anni, a quando gli uomini da un minuto erano il power trio più cool della West Coast ed avevano appena inciso il doppio che avrebbe per sempre cambiato il corso degli eventi, “Double Nickels On The Dime”, poco tempo prima di quell’incidente fatale per le sorti del gruppo. Questa volta, però, non c’è nessun confine da spostare, nessuno sberleffo agli Hüsker Dü, nessuna ansia da prestazione giovanile. Il cinquantaquattrenne Watt prende come spunto la produzione pittorica del fiammingo Hieronymus Bosch (di quella stessa scuola, vivida, macabra e paradossale, e più precisamente dalle parti di Pieter Brueghel il Vecchio, i Fleet Foxes andarono a parare per la copertina del loro esordio, lo ricorderete) per ideare trenta miniature che si rifanno, idealmente, a trenta personaggi diversi presenti nelle tele del pittore quattrocentesco. Una sorta di “Canterbury Tales” musicati, se vogliamo. La premessa potrebbe anche gettare nello sconforto i sostenitori dell’intellettoclastia sempre e comunque, ma il suono di questi bozzetti sprigiona una vitalità ed una forza propria che, francamente, rendono inutile qualsiasi ricamo teorico lavoratoci sopra.

La base di partenza su cui manipolare le valvole di sfogo dell’impasto chitarra-basso-batteria (l’album è stato registrato, doveroso sottolinearlo, con l’apporto di Tom Watson alla sei corde e Raul Morales dietro le pelli) rimane sempre l’hardcore estremamente volatile e meticcio, ormai marchio di fabbrica della produzione wattiana. Ad esso, e ad esso solo si riconnettono alcuni degli episodi più robusti come, ad esempio, la cupa presenza scenica del riff di “Man-Shitting-Man”, le ritmate sincopi di “Finger-Pointing-Man” o l’assolato ciondolare younghiano di “Hammering-Castle-Bird-Man”. Poi, a seguire, tutto ciò che si aspetta: pezzi acustici (classici come “Wheel-Bound-Man” o ben più notevoli, come “Cherry-Head-Lover-Man”), ampi intermezzi parlati, funk (“Fryingpan-Man”, “Stuffed-In-The-Drum-Man”), distillati rogherò a gradazione grossomodo intermedia (anche se “Bird-In-The-Helmet-Man” fa quasi finta di avere un profilo fuorilegge), stonature quanto bastano (“Bell-Rung-Man”, “Funnel-Capped-Man” o “Lute-And-Dagger-Man”, a scelta) e qualche colpettino di biliardo sparso qua e là nel platter, tipo la nenia giocattolosa di “Antlered-Man”, il montante jewish nel robusto power rock di “Own-Horn-Blowing-Man”, la sinuosa chitarra crepuscolare di “Pinned-To-The-Table-Man” o l’ipercinetica “Beak-Holding-Letter-Man”, a cui basta un minuto e mezzo per dare fondo ad un’inarrestabile policromia melodica.

Home sweet home avevamo previsto, ed home sweet home è stata, con tutti i pregi e difetti del caso. Aggiungete un’altra sicurezza al già nutrito mazzo: prima di fare le scarpe a questo vecchio passerà ancora moltissimo tempo.

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