The Horrors
Primary Colours
Dichiarava Giovan Battista Marino, che era un furbo: «Sappia tutto il mondo che imparai sempre a leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò ch’io ritrovava di buono e servendomene a suo tempo». Gli Horrors, che sono dei furbi quanto Marino se non di più, devono aver ascoltato molti dischi col rampino, andando per settori, scientemente. Il loro interessante debutto, “Strange House” (2007), era un’originale incursione tra rockabilly gotico e psichedelia sixties, il tutto in una salsa indie-punk prettamente britannica. Questo seguito, invece, rivisita il territorio dark wave più battuto, dribblando i Joy Division soltanto per abbracciare i Bauhaus; il che tira assai, di recente.
Produce, va detto, Geoff Barrow (Portishead), che lascia un’impronta ossessivo-ipnotica tutta sua evidente sin dall’incipit, una “Mirror’s Image” in cui le chitarre soccombono rispetto a synth ed effetti vari. Ed è questa minore preminenza delle chitarre la più vistosa novità rispetto al passato, accanto a una totale svolta vocale da parte del leader Faris Rotter: niente più urla schizofreniche, schizzi demenziali, vomitature punk, ma un’attitudine introversa, spesso in direzione dark esistenziale. Alla Ian Curtis, insomma. L’esito è una maggiore emersione delle linee melodiche, con risultati (in sostanza) più ‘pop’, decisamente di più facile ascolto se confrontati con schegge ruvidissime e psicotiche tipo “Sheena Is A Parasite” o “Little Victories”.
Il complesso, tutto sommato, non dispiace, perché questi le canzoni le sanno scrivere e perché Barrow le sa maneggiare con arte. Non è detto, cioè, che una somma di sapienti furbizie debba dare risultati deprecabili, anche se pezzi ambiziosi sfocianti in noia come “Sea Within The Sea” potrebbero far pensare male. In “Who Can Say” Rotter, nel suo destreggiarsi tra il mono-tono curtisiano e uno spoken word tutto brit (tutto Jarvis Cocker), spettacolarizza un pezzo niente male; “New Ice Age” è il punto di contatto più forte con il passato, perché le chitarre tornano egemoni, copulando con l’organo su saliscendi armonici da decadentismo noir; “Primary Colours” è la vetta radiofonica – Joy Division più di quant’altri mai nell’anthem della strofa, con un tocco di The Jesus And Mary Chain nel resto.
I ritmi tremendamente più bassi nel confronto con “Strange House” non sono un indice di rammollimento, ma un’arditezza non banale. Gli Horrors li reggono bene durante quasi tutto il disco (“Scarlet Fields”, “I Can’t Control Myself”, cioè i Velvet Underground che incontrano Peter Murphy), esaltandoli nella lentissima, quasi arrendevole, “I Only Think Of You”, bijoux vittoriano incupito dal baritono di Rotter e poeticizzato dagli sviolinamenti di tastiere e chitarre. «Orchestral Pop Noir Romantique», parafrasando i Dears.
Gli Horrors, certo, non fanno più paura. E non fanno più la musica di prima. Ma non fanno, per questo, passi indietro. Un passo verso l’ombra, casomai, con un occhio alla classifica.
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