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R Recensione

6,5/10

Zu

Terminalia Amazonia

Li riconosceresti subito tra tanti, i dischi degli Zu, indipendentemente dal periodo d’elezione – gli esordi grandguignoleschi, le mille collaborazioni iconoclastiche, le turbolenze free jazz, le voragini metalliche di “Carboniferous” e la discontinua, metamorfica rinascita di metà decennio. Li riconosceresti subito dalla consistenza, dall’estetica, ma soprattutto dall’odore: un persistente, pervasivo puzzo di zolfo. Il suono degli Zu (a tre, a quattro, a dieci, orchestrali, ridotti al silenzio) è pervaso di vibrazioni infernali, di allucinazioni mefistofeliche: come di chi, aggirato il Flegetonte, sia riemerso in superficie per replicarne e propagarne lo sciaguattare in mille forme diverse. Oggi la band romana, staccato il biglietto del ventennale d’attività con l’eccellente comeback del figliol prodigo (il ritorno all’ovile del fenomeno Jacopo Battaglia per il pur generoso e incisivo Tomas Järmyr) e un quarto, inedito innesto di lusso (Stefano Pilia, da tempo membro ufficioso in studio e votato ad una collaborazione artistica pluriennale con Massimo Pupillo), prima di irrompere nel secondo decennio del nuovo millennio con una raccolta di inediti che si dovrebbe proporre come legittima erede degli incubi di “Carboniferous” si congeda dalle scorie tossiche del decennale 2010-2019 con il terzo, ultimo e più ambizioso capitolo della propria personalissima trilogia mistico-sciamanica, i settantadue minuti di “Terminalia Amazonia”.

Se “Jhator” (2017) introduceva solennemente gli Zu – o ciò che allora ne era rimasto – ad un formato suite alquanto sui generis, e il successivo, altalenante “Mirror Emperor” (2018, dato alle stampe come Zu93) riproponeva in chiave decadente la nuda teatralità di esperimenti come “The Left Hand Path”, “Terminalia Amazonia” (una specie di Combretacea nativa delle due Americhe) è senz’altro l’esperimento sonoro che spinge la performatività del gesto tecnico al suo estremo limite, disciogliendo non solo ogni confine formale tra movimenti, ma anche tra musica effettivamente suonata ibi et tum e musica riprodotta fuori dal tempo. Concettualmente ispirato da un rituale collettivo eseguito in un villaggio peruviano, sul fiume Ucayali, popolato da curanderi Shipibo, il quadrumvirato Pupillo-Mai-Battaglia-Pilia – ognuno deposti i propri strumenti – si posiziona dietro un pannello di comando ricoperto di soli synth analogici. È questo l’unico punto di contatto, al di qua, con un al-di-là di arcani field recordings dell’oltretomba e con le formule magiche smozzicate, cantilenate, elevate al cielo dal maestro sciamano Oscar, che nei quasi venti minuti della fluviale “Dimora Ancestrale” sembra addirittura prestare il controcanto ad una composizione di rigoroso neominimalismo (un’impressione fugace, poi soffocata nelle spire di una velenosa dark-industrial). In questo, e solo in questo senso, “Terminalia Amazonia” è un fedele negativo di “Jhator”: tanto veniva difficile immaginare una riproduzione live di questo mastodonte, tanto risulta impossibile concepire quell’impressionante installazione disgiunta da una controparte visuale o sensoriale sensu lato, una conditio sine qua non che solo la dimensione dal vivo può soddisfare (si prenda, a mo’ di esemplificazione, la progressiva transizione da drone celestiali a mefitici bubbolii Lustmord attorno alla metà di “Memoria Antica”, qualcosa che meriterebbe un’adeguata traduzione grafica).

Non solo: ad onor del vero, quando il fallout noise di “Futuro Remoto” comincia a sfilacciarsi in un terrificante silenzio glaciale, da Giudecca, si comincia ad avvertire come un vuoto allo stomaco – il timore dell’ade sulla terra, forse (the goat is at the door...), o più semplicemente la nostalgia della maggior musicalità di “Jhator”. L’ammirazione per l’impresa, questa volta, rimane rinchiusa tra un emisfero cerebrale e l’altro.

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