Sufjan Stevens
The Age of Adz
Una di quelle cose che ti manca anche se non sai nemmeno cosa sia. Di più, una cosa che desideri impetuosamente proprio perché non la conosci. È la svolta, il cambiamento radicale, il gesto stupefacente, la metamorfosi. È la rivoluzione personale, l’ultimo residuo di giovanile bellicosità, quello che generalmente sfonda gli argini della tormentata quiete dei trentenni e diventa riscatto per le rivoluzioni fallite. Perché quando sei un pischello vivi nell’assoluta certezza che – un giorno – guiderai una grande sollevazione mondiale, mentre già intorno ai vent’anni sogni una più modesta rivolta nazionale. E se dieci anni dopo non hai ancora capito contro cosa dovresti insorgere, allora non ti rimane che la terza fase: l’insurrezione contro te stesso, il coup de theatre, il gesto auto-sovversivo da lasciare ai posteri. Almeno quello, porca miseria. E non si legga nel carattere residuale appena attribuito all’auto-ribellione un’ accezione del tutto negativa: è ovviamente un ripiego però – almeno questa volta, cazzo – non è una sconfitta ma una conquista, è lo scongiurare eventi futuri nefasti, ovvero rivoluzioni pre-senili oggi tanto socialmente frequenti quanto risibili: il cinquantenne che abbandona moglie e figli e scappa con la badante romena (che un giorno tornerà in Romania “a trovare la famiglia” e non darà mai più sue notizie), il sessantenne che sostituisce il Prostamev col Viagra e ciondola per strada offrendo sorrisi compiaciuti, la casalinga disperata (e separata) che trasferisce la propria residenza in palestra, l’impiegato eterno single che vende la Seicento GPL per comprare l’Harley Davidson…
Sufjan Stevens, 35 anni da Detroit, la sua rivoluzione personale l’ha appena avviata: con il suo sesto album di inediti prende tutte le certezze (il folk, la provincia americana, il progetto dei 50 dischi per 50 stati, uno stile consolidato ed imitato) e soddisfa i suoi desideri senza condizionamenti, senza un termine finale, in maniera incosciente, istintiva e, ancora una volta, folle. Lo avevamo previsto, il recente EP “All Delighted People” erano i tre fuochi d’artificio finali, la summa – estremizzata, compiuta e volontariamente “stereotipata” – della concezione cantautoriale di Sufjan Stevens, del Sufjan Stevens formato canzone (o meglio, del formato canzone secondo Sufjan Stevens). Con “The Age of Adz”, Stevens diventa semplicemente autore, o meglio, compositore. L’esperienza di “The BQE” stretta in una mano e quella di “Enjoy Your Rabbit” nell’altra, unite a creare un corpus sonoro unico, azzardato, difficile e affascinante.
Sovvertiamo qualche piccola regola anche noi, e cominciamo dal fondo: “Impossibile soul”. Ecco, se in passato Sufjan Stevens aveva dimostrato di voler trascendere il formato canzone estendendo la durata dei brani e rinunciando alla struttura strofa-ritornello, oggi semplicemente tratteggia architetture vaporose su note reiterate all’infinito ma modellate in centinaia di modalità diverse. La prima sezione di questo brano-fiume fa scorrere intrecci vocali (con Shara Worden aka My Brightest Diamond come ospite speciale) su un ritmo trip-hop intorpidito, verso il decimo minuto il tutto rimane sospeso a supporto di un Sufjan che canta con l’ausilio dell’autotune manco fosse una versione indie di Kayne West, al quarto d’ora arriva la consueta (e sospirata) esplosione christian-gospel, introdotta da uno “one-two-three-four” che è puro (ma sensato) delirio d’onnipotenza, e incentrata su frasi da meeting motivazionale (“boy we can do much more together / better get a life get a life get a life / it’s not so impossibile!”). Sul finale la tensione si dipana su un delicato arpeggio acustico degno di un Elliott Smith in stato di grazia (ovvero di un Elliott Smith a caso). Venticinque minuti di musica densa, avvincente e coraggiosa.
Il finale di “Impossibile soul” (e quindi del disco) si collega in maniera circolare con la prima traccia, “Futile Devices”, uno dei pochi rimandi al Sufjan Stevens pre-rivoluzione, quello che arpeggiava melodie fragili e sognanti arrangiate in maniera sontuosa. “Futile Devices” è quasi una “Concerning the UFO Sighting” in versione “roots”, e non si aggiunga altro. L’altro momento “amarcord” è “Vesuvius”, cinque minuti di crescendo vocale (“Sufjan! / Follow your heart!”) durante i quali diverse melodie si susseguono con naturalezza sconcertante, supportate dal solito arrangiamento dimessamente-barocco (ossimoro Sufjanistico per eccellenza) e da un velo di malinconia, perché questo Sufjan Stevens ci manca già.
Il resto del disco disegna e programma la rivoluzione elettronica di Stevens. Che, sia chiaro, è rivoluzione vera (sebbene intima) e non quel volgare decoupage elettronico tanto di moda negli ultimi anni. Non sono gli Editors dell’anno scorso, per capirci, ma piuttosto i Radiohead di “Kid A”.
La doppietta composta da “Too Much” e “The Age of Adz” introduce i concetti chiave di questo cambiamento, che sono l’elettronica intesa come sostegno ritmico per i soliti magistrali arrangiamenti fiati/archi/voci, in una mutazione (“Enjoy your rabbit” goes hypnagogic?) che non modifica la natura e la forza evocativa delle composizioni. Niente di imposto o niente che possa “corrompere” le caratteristiche compositive di Sufjan Stevens per come le abbiamo conosciute. Piuttosto, il neo è da ricercarsi in una certa ripetitività nelle frasi musicali e nei testi, causata probabilmente dalla volontà di rendere le composizioni circolari e “indefinite”. Così, il singolo “I Walked” sembra non iniziare mai per poi interrompersi bruscamente, “Get real get right” ha l’aria di essere un riempitivo giocoso (oddio!), mentre “All for Myself” potrebbe essere il Sufjan Stevens di domani, autore di musica da camera in stile Broadway e chissà cos’altro ancora.
Luci e ombre, novità e tradizione, coraggio e passione, una porta socchiusa sul passato e una spalancata sul futuro, con gioia e con grandi aspettative, nonostante quel passato fosse meraviglioso. Perché la morale di questo disco, cari i miei thirty-something, è proprio questa: non importa quanto rischiosa sia la vostra rivoluzione personale, non chiedetevi cosa perderete e cosa otterrete. Vi rimane solo questa, prima del Viagra, prima dei viaggi in Romania alla ricerca di un amore perduto, prima delle crociere “all inclusive” e prima degli “speed date”. Ribellatevi contro voi stessi, tanto siete un bersaglio facile e debole, e nella peggiore delle ipotesi porterete a casa un pareggio.
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