R Recensione

8/10

Shady Bard

From The Ground Up

La prima cosa da fare è mettere via i preconcetti, azzerare il cinismo e dimenticarsi i giochetti da indie rockers: non c'è malizia, apparentemente, in questo esordio dei Shady Bard, nè trucchi del mestiere. Non ci sono melodie spezzate, troncate, oblique, mutanti o sghembe. Gli arrangiamenti non sono sporcati da trovate dell'ultimo secondo, i giri di accordi non cambiano improvvisamente direzione lasciandoti con un pugno di mosche.

Tutto, in questo disco, procede senza scossoni, nei binari di un indie pop tendenzialmente folk, sporcato solo sporadicamente da qualche chitarra elettrica distorta o da qualche timida accellerazione. Il gruppo si presenta senza la corazza degli artifici e punta tutto sulle canzoni.

Un atteggiamento schietto a cui siamo sempre meno abituati nel regno vezzoso e cervellotico dell'indie rock. E che ci potrebbe portare ad etichettare questo esordio come banale: è innegabile che molte delle melodie qui presenti possano sapere di già sentito e che spesso si possa prevedere con un paio di minuti d'anticipo dove andrà a finire il pezzo. Se siete dei maniaci dell'originalità a tutti i costi, questo non è il disco che fa per voi.

Per gli altri ci potrebbero essere parecchie soddisfazioni dietro l'angolo: il frontman Lawrence Becko pare una sorta di strano incrocio tra Neil Hannon dei Divine Comedy e Euros Child dei Gorky's Zygotic Mynci, e la band si adegua, con composizioni che ereditano la vena melodrammatica del primo e il senso di infantile meraviglia dei secondi, trovando il modo di fonderle con le atmosferiche estatiche dei Sigur Ròs.

From The Ground Up è un disco che saprà aprirsi come uno scrigno, se vi ci avvicinate con lo spirito giusto: dalla traccia d'apertura Fires, che pare una rilettura indie folk della formazone islandese ad una Treeology che fa suoi i crescendo celestiali dei già citati Divine Comedy, passando attraverso l'accorata Torch Song e lungo l'arpeggio strappalacrime della titletrack, con un crescendo che avrebbe resi fieri i Mogwai più bucolici.

E poi Penguins, che rievoca, ancora una volta, i migliori episodi della discografia dei Divine Comedy. E ancora, la melodia splendidamente eterea di Summer Came When We Were Fallin, posta sapientemente in chiusura.

Volenti o nolenti, non possiamo fare a meno di soccombere di fronte a tanta, meravigliosa, spontaneità.

V Voti

Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 5 voti.
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REBBY 9/10

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