Arcade Fire
Reflektor
Quando si dice il potere della musica. Pochi tra noi avevano visto il film Orfeo negro, vincitore a Cannes nel 1959, e ora lo conosciamo tutti. E quando sentiremo nominare il mito di Orfeo ed Euridice non ci verrà più in mente la puntata di Pollon (che peraltro include un momento glam rock che al nuovo Butler non dispiacerebbe), ma la statua di Rodin nella copertina di Reflektor. Il disco degli Arcade Fire che celebra lorfico potere della musica.
Perché di questo, nel quarto elefantiaco disco della band canadese, si tratta, e lo si fa attraverso 75 minuti volutamente diluiti in modo da avere bisogno, per contenerli, di due dischi. Il tema del doppio, daltronde, giustifica lo sforamento, tanto più che lalbum si chiama Reflektor e che la divisione è ribadita nella struttura, nellordine delle tracce e persino nel ri-montaggio del film attuato per lo streaming integrale del disco, nettamente bipartito. Dunque, meglio seguirli, questi Orfei, come fece Euridice nelloltretomba. Passo passo.
1. Il recto: il corteggiamento e la festa
Conoscendo in partenza le due informazioni che erano filtrate su Reflektor (la produzione affidata a James Murphy e il viaggio dei due leader a Haiti, terra dei genitori di Régine Chassagne), si sarebbe subito potuto scommettere su un dato, che in effetti il disco conferma: la preminenza della sezione ritmica. Niente di meglio, se si vuole celebrare la forza sciamanica della musica, che insistere sul groove, e lLCD Soundsystem Murphy è luomo giusto per farlo. La novità, allora, è che gli Arcade Fire sono una band che punta sempre più sui suoni che sulle melodie, cosicché da questo ascolto si uscirà più facilmente fischiettando un riff o un giro di basso che un ritornello.
La title-track applica la lezione in modo esemplare, diventando una specie di mise en abyme del disco tutto: bassoni groovosi, chitarre taglienti, piccolo momento disco, un bel po di ripetizioni, almeno un minuto di troppo. Qua, in più, nel gioco di specchi: interviene, as god cioè as himself, David Bowie, modello del brano stesso (supersimmetria); Win e Régine giocano al loro tipicissimo rispecchiamento linguistico; e (lo sento solo io?) allinizio lo specchio è proprio rivolto su di sé, con quelle note di piano, un po sommerse nei primi 10 secondi, che riprendono lincipit di Tunnels (il tunnel di Orfeo?). Agli Arcade Fire non si può negare di essere intelligenti. E di pubblicare dischi che titillano e iper-stimolano chi si propone di interpretarli (i 9,2 così sono più facili).
Il primo disco prosegue in un trionfo di bassi scuoti-testa (We Exist), svisate dubbose, tribalismi, ammicchi afro, new wave per balere. Gli Arcade Fire prendono da altri e rifiniscono, come i migliori attaccanti. Arrivano a traino e concludono. Flashbulb Eyes è talmente Peaking Lights che i Peaking Lights ritwittano divertiti tutti quelli che lo notano, ma non è un problema, tanto più che il brano è lunico del disco a non perdersi in lungaggini ed è uno dei pochi a tenere, pur in nuove vesti psichedelico-dub e carnevalesche, listinto festosamente caotico dei primi Arcade Fire. Here Comes the Night Time ha un innegabile sapore Vampire Weekend, ma va bene: è tra i pezzi migliori dellalbum, e i suoi sei minuti filano che è un piacere, tra cambi di ritmo old-style, balletti calipso, passaggi da sambodromo ben intrecciati a scuri crescendo krauti, per un mash-up assurdo, a tratti giocoso a tratti funereo, che esalta la notte di Port-au-Prince e la notte di qualunque parte del mondo. È un gioco che sembra facile, ma non lo è: agli Arcade Fire riesce a meraviglia, e godiamo.
Il problema viene dopo. Quando attacca la festa, insomma. Ed è un problema perché la band di Butler, invece di parteciparci senza pippe mentali, si immagina e si rappresenta mentre guida la festa stessa. Si mette in scena, insomma. Reflektor diventa meta-reflektor proprio dove vorrebbe essere più popular, e lo diventa come inevitabile supercazzolizzazione di pezzi killer riusciti male. Sia Normal Person che You Already Know sono incorniciate in modo da sembrare registrate live, per effetti di citazionismo caricaturale: Butler critica i poser rochenrolle atteggiandosi da Elvis esistenzialista («Do you like RocknRoll music, cause I dont know if I do»), gli Arcade Fire fanno gli indie rock qualsiasi per cantare la marginalità della lentezza in un mondo iper-veloce (You Already Know), e tirano pure fuori, accanto ai lustrini glam, le divise punk, mentre cantano Giovanna dArco, novella Euridice, amata, uccisa e poi di nuovo adorata. La climax nera di Joan of Arc, su arpeggi sinistri e una batteria sempre più minacciosa, prepara alle atmosfere del secondo disco, ma mette anche in evidenza la flessione di una sezione centrale che vorrebbe essere anthemica, fisica, da riproporre nelle esibizioni dal vivo con il sudore addosso, ma finisce solo per essere evitabile.
2. Il verso: la perdita e leternità
Torna la notte, dunque, ma stavolta le tenebre sono quelle della morte. Aumentano i synth, si abbassano i ritmi, si smorzano le luci, i beat diventano più glaciali: Orfeo è negli Inferi. È laltra sponda interessante del disco, dove Caronte ci traghetta quasi drogati: Awful Sound (Oh Eurydice), e vabbeh, decide di tributare anche i Beatles, in una straniata ballad che attraversa decenni di musica come un rastrello in un giardino dautunno, raccogliendo un po tutto, tanto che Euridice assume le sembianze di Dafne, Orfeo di Apollo («Please stop running now / just let me be the one»), e tutto sfoga in un coro finale da gloria sixties per sing-along da stadio. Poi è il turno degli Arcade Fire-get-synth pop, pensabili solo dopo Sprawl II, con quellimpressione, tuttavia, di essere sempre troppo epigonici. Its Never Over (Oh Orpheus) parte come un pezzo dei Cold Cave, salvo farsi rilanciare da un riffettone che permette alla canzone di andare avanti e di raggiungere il finale stracchissima (non finisce mai, no), mentre Porno, tra i pezzi più freddi e statici della band, non è così diversa (né migliore, anzi) da brani che si possono trovare nellultimo degli Still Corners.
È qua che la sensazione del minuto di troppo inizia a pesare: allaltezza di Afterlife il difetto diventa patologico, ed è un peccato, anche perché l«uh uh uh uh» di Régine, i fiati arrangiati da Colin Stetson e la felice combinazione di cadenze caraibiche e tocco di James Murphy danno magicamente vita a un pezzo tanto tipicamente Arcade Fire quanto emblematico di un nuovo modo di cercare la memorabilità più attraverso la stimolazione dellanca che la ricerca dellhook melodico. Insomma: Haiti rifatta dopo la morte del folk rock anni zero. Ma allungata. Allungata. Troppo. Come Supersymmetry. Come questa recensione.
Cadere nel difetto delleccesso di grandeur lo capisco. Reflektor è sopra le righe, come i vestiti indossati dalla band per il tour. Voleva esserlo, ci mancherebbe. Ma questo non lo salva dal difetto della prolissità, che già guastava il precedente, peraltro più scialbo, The Suburbs (che rimane, direi, il loro disco peggiore). Altri classici della loro discografia ce ne sono, qua dentro: il talento della band rimane. Tanto più che la scelta del concept, pur stringente, non crea una gabbia troppo rigida, lasciando soltanto qualche perplessità a livello di lyrics: con pochi dubbi, è il disco dove la scrittura di Butler è meno ispirata. Ma non è questo il problema. Il problema è che, contrariamente ai primi due dischi, non tutto ciò che esce dalle mani degli Arcade Fire è oro, mentre loro continuano a pensarlo, finendo per rendere opaco anche ciò che è oro davvero.
A venire in mente, più che Orfeo, è Narciso: agli Arcade Fire lo specchio-reflektor non serve.
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