Tu Fawning
A Monument
Se l’esordio dei Tu Fawning non eravamo riusciti a dire esattamente cosa fosse, tanto sfuggiva alle categorie, questo “A Monument”, fin dal titolo, propone di offrire qualche punto fermo. Il primo è che questo quartetto di Portland continua a somigliare a poche cose. Il secondo è che queste cose sono piuttosto cupe. Aggiungendo qualche puntello elettronico alla gamma strumentale di “Hearts On Hold”, il sophomore di Corrina Repp e soci li conferma principi dei carnevali scuri, dei tribalismi neri, dei funerali post-Arcade Fire di “Funeral”, eredi corrucciati della wave canadese di metà anni zero e cantori di un rock barocco tutto tramato di ossessioni ritmiche e orchestralità weird svisata in tonalità minori.
Registrato tra San Francisco, Portland e la casa di Justin Harris dei Menomena (loro mentori agli esordi), “A Monument” è come se trasformasse il technicolor della coralità indie folk recente in un bianco e nero turbinoso. Synth ammassati su fiati, tasti bassi di piano che picchiano sopra orge di voci, chitarre ruvide per inni di un’America incattivita nell’angolo, e tanta terapia psichedelica di gruppo: da “Blood Stains” a “Wager”, passando per il sontuoso melodramma gotico di “Build A Great Cliff” e le scariche bandistiche dark di “To Break Into” (magnifica), il disco dimostra la potenza dei Tu Fawning quando si giocano tutte le proprie carte, inclusa la voce solidissima della Repp. Monumentali è l’aggettivo giusto, insomma, dove si danno ai baccanali art-rock (“Bones”: quanto bene suonerebbe uno split coi Bruce Peninsula?) o dove fanno finire i Beach House in sacrali pieghe nativoamericane (“Anchor” è di diritto tra le canzoni del 2012).
Ciò che ancora manca ai Tu Fawning per lo scatto decisivo e ciò che rende questo disco minore rispetto al debutto è la carenza, in alcuni pezzi, di una scrittura all’altezza degli arrangiamenti. L’energia strumentale di “A Pose For No One”, indie-folk dal respiro spettacolare, non è sostenuta dalle melodie vocali, e così pure altri episodi languono un po’ (“Skin And Bone”, “In the Center of Powder White”). Per un disco non facile da digerire neppure nelle sue parti più riuscite, è una pecca che rischia di pesare oltre la giusta misura.
Perché questi sono proprio bravi, se non era chiaro. Il monumento vero alla prossima. Intanto già qui c’è del marmo nero sulle cui venature perdersi in stregato godimento.
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