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R Recensione

8/10

Courtney Barnett

Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit

“Slacker”: nullafacente, scansafatiche, fannullone.

Il termine è stato coniato per la prima volta nell’Ottocento con riferimento agli operai del Sudan (allora colonia britannica) che, durante i lavori per i canali di irrigazione del Nilo, si rifiutavano per protesta di continuare a lavorare. (enjoy Wikipedia!)

“Don't ask me what i really mean. I am just a reflection of what you really wanna see…So take you want from me…”

Campo lungo. Prime chiazze luminose del mattino. La schiuma dell’onda va e viene. Accarezza come una fisarmonica pigra l’orlo della spiaggia. Zoom. Sabbia e ancora sabbia. Poi un punto nero, indefinito. Una foca morta. Rewind. Melba ha sui 16 anni e una Ford wagon blu del ’99 l’aspetta sbuffando monossido di carbonio in strada. Il viale è anonimo, uno dei tanti. Di una lontana lontana periferia anonima. E’ il momento di lasciare questo sputo di mondo, ragazzina: arrivederci Sydney, destinazione Hobart. Un tipino sveglio, Melba. Viviseziona persone, cose e luoghi con fame adolescente, filtrando e fotocopiando tutto con grandi pupille à la Margaret Keane. Una Leica M6 biologica, di carne e ossa, selettiva, precisa, sempre a caccia di stimoli e idee intorno alla sua testa bambina. Mi domando se Melba avrà mai avuto a che fare con quella parolina un po’ sinistra, da orgogliosa paginetta wiki. Un nerd sostantivo-aggettivo forgiato, suppongo, dalle medesime menti occidentali superiori che ama(va)no seghettare generi musicali, correnti politiche, donne (millenaria pratica fallocentrica, ok) e, last but not least, quel supermarket esistenziale che ai tempi sponsorizzava la famigerata generazione X. La mia generazione. Il mio disagio con codice a barre che qualche maitre a penser molesto, di solito sbucato fuori da uno speciale tg2, provava a rivendermi come un pacchetto di Fonzies scaduto o un laserdisc HLD-X9 della Pioneer vuoto. Nel 2015 dopo Cristo vi sembrerà paleolitico ma quel dannato fagocita dischi ultraborghese costava più dei socialmente cancerogeni i-phone di ultima generazione, uno dei luminescenti schermi tattili da cui forse scrutate questo simulacro di recensione. La parolina sinistra, ci siamo capiti, era “slacker”. All’epoca l’associavo tendenzialmente a cinevisioni horror e metal-dipendenza estrema (slasher? pusher? thrasher?), fregandomene del puro significato etimologico. L’unica, indiscutibile certezza che avevo è che tutto, o quasi, ebbe origine dal filmino Sundance lo-fi di uno chiamato Linklater…

“Taxidermied kangaroos are littered on the shoulders, a possum Jackson Pollock is painted on the tar…Sometimes I think a single sneeze could be the end of us.”

Fast forward di circa dieci anni. Sydney, Hobart e la Tasmanian School of Arts. All’indomani della partenza dalle spiagge assolate a nord di Sydney l’ex teenager Melba vede in sogno il proprio futuro, un futuro in cui compaiono accecanti le sacre stimmate di St. Cobain a benedirla e indicarle magnanime la giusta via maestra. La ragazza non spreca un minuto dalla Rivelazione e di lì a breve saprà farsi apprezzare chitarrista smaliziata e dal tocco lieve/grattuggiato nel revival-grunge oceanico dei Rapid Transit. Quindi arrivano le solite sentinelle delle new sensations pitchforkiane a rimbalzarsela come una trottola indie-impazzita, per una volta a ragione direi, grazie a due (ottimi) ep solisti più in là riuniti nella raccolta “A Sea Of Split Peas”: “I’ve Got A Friend Called Emily Ferris” del 2012 (che includeva già l’esemplificativo primo singolo “Avant Gardener”) e “How To Carve A Carrot Into A Rose”, 2013. La piccola sedicenne che lasciava Sydney ora gira con una band di maschi in tour senza soste fra le due sponde dell’Atlantico. Il suo nome e cognome è Courtney Barnett. A detta di taluni indiecronisti se lo scazzo sonico degli (anti)eroi Novanta ha ancora una qualche ragione di resistere e persistere sarà soprattutto per colpa del talento/iperattivismo live di questa piccola aussie dai tratti paffutelli-McCartney. Molto più banalmente, l’acuta Melba che osservava il mondo dall’oblò della propria cameretta è ormai matura per il salto decisivo del full-lenght, quello davvero importante in studio di registrazione: le saranno sufficienti otto giorni nell’aprile ’14 (chiusa dentro gli Head Gap Studio di Preston, Victoria) a germogliare l’atteso esordio ufficiale “Sometimes I Sit And Think, Sometimes I Just Sit”. Che parte già benissimo con un titolo di minimale efficacia zen, ripreso dalla frase che l’arguta nipotina guardava appesa su un vecchio poster a casa di nonna Barnett. Non contenta, Courtney si crea anche una label discografica autoctona (la Milk! Records) con l’impegno di pubblicare in totale libertà creativa amici musicisti e i suoi 44 minuti di ellepì, a un anno dall’inizio delle sessions con i fidi Bones Sloane al basso, Dave Mudie alla batteria e l’esperto Dan Luscombe (seconda chitarra e mixing) in ferie dagli eccellenti Drones. Prodotto dalla Barnett con Burke Reid e lo stesso Luscombe, l’homemade e beffarda filosofia della Sedia quale centro dell’Universo è un mutevole, istantaneo e solidissimo specchio riflesso musicale della sua sveglia autrice. Capace di alternare croccante indie/pop-rock e post riot-grrrlismo (l’opening “Elevator Operator” gustosamente Sleater-Kinney, le pennellate di nonsense e vita quotidiana sentimentale in “Dead Fox”, gli aromi sixties di “Debbie Downer” con quell’organo così kinksiano) a stentorei saliscendi elettrici in flanella Seattle (il single "Pedestrian At Best", che spinge su un rifforama molto “Bleach” e spavalda ritmica Grohl-oriented, l’agile interplay di sei corde in “Aqua Profunda!”), riti sciamani di doorsiana evocazione (i quasi 7 minuti dell’ipnotica “Kim’s Caravan”, con folate psych memori di un Robby Krieger) a intimo folk riverberato che sfuma nostalgico nel Lou Reed 50’s di “Small Poppies” e nel mercuriale outro alla Beck “Boxing Day Blues”.

“Watermarks on the ceiling. I can see Jesus and he's frowning at me. I see a dead seal on the beach. The old man says he's already saved it three times this week. Guess it just wants to die. I would wanna die too…”

Ma di questa giovane cantastorie moderna con il cuore/jack spesso piantato nel Marshall vanno a segno soprattutto alcuni imperdibili, spesso agrodolci, flashback letterari da Peanuts cresciuti a Jonathan Richman e Pavement via Raymond Carver. Beffardi quadretti personali che succhiano verità come nel minuzioso autobiografismo di “An Illustration Of Loneliness (Sleepless In New York)” (“There's oily residue seeping from the kitchen. It's art-deco necromantic chic, all the dinner plates are kitsch with Irish Wolf Hounds, french baguettes wrapped loose around their necks. I think i'm hungry , i'm thinking of you too…”) e nel vado-non-vado della pseudo morettiana “Nobody Cares If You Don’t Go To The Party” (“You say "You sleep when you're dead", i'm scared i'll die in my sleep. I guess that's not a bad way to go. I wanna go out but i wanna stay home…”). Fino ai frammenti di suburbia e vecchiaia della memorabile “Depreston”, candidamente rivestita di ricordi amarognoli e dylanesco stream of consciousness (“We drive to a house in Preston, we see police arrestin' a man with his hand in a bag. How's that for first impressions? This place seems depressing, it's a californian bungalow in a cul-de-sac…”). C’è una capacità, in “Sometimes I Sit And Think, Sometimes I Just Sit”, un tratteggio lieve nel raccontare e raccontarsi non comune, che oggi fa la differenza. Domani chissà. Il futuro di Courtney va oltre le facili etichette dell’usa-e-getta internettiano e potrebbe ragionevolmente lasciare al palo vagonate di altre “cantautrici 2.0 distorsore incluso”. “It ain't no use to sit and wonder why, babe…if you don’t know by now…” cantava qualcuno. Ecco, mai amate certe targhette adesive generazionali: mi trasmutano scivolose e passatiste sensazioni della perfida età “slacker”. Quando l’apatico sentimento era un cagnolino che scodinzolava per andare al parco, a disegnare pipì dietro il cestino dei rifiuti, un malinconico Elio Vito dei nostri tempi brutti, un passepartout identitario fedele e un po’ rompicoglioni.

Campo medio, tardo pomeriggio. La schiuma dell’onda continua a portarsi via lo sporco dalla sabbia. Un vecchio fuori fuoco si ferma e fissa lo sguardo con compassione. Cosa resta di questi giorni accigliati? Sonnolenza. Filigrane. Gesù, Kurt e il Sunset Strip. Un’altra foca morta.

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Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 7 voti.
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max997 8/10
motek 5,5/10
REBBY 7,5/10
cico57 8/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 7,5 questo disco) alle 11:59 del 2 febbraio 2016 ha scritto:

Sarà perché io ero giovane allora, ma a me, più che l'epoca grunge, è venuta in mente subito l'epoca d'oro del CBGB di Manhattan.

Marco_Biasio alle 18:29 del 30 aprile 2018 ha scritto:

Intercettata del tutto casualmente, grazie al suo ultimo singolo, City Looks Pretty. Me ne sono innamorato all'istante. Una riscoperta - anche in virtù di questa torrenziale, splendida recensione - è d'obbligo.

14juillet (ha votato 8 questo disco) alle 15:32 del 14 novembre 2020 ha scritto:

La prima cosa che avevo sentito di lei è stata, anche per me, City Looks Pretty, presente nella colonna sonora di un noto videogioco di calcio: canzone simpatica, ma poi non ho più approfondito. La tipa è riemersa dall'oblio qualche giorno fa e stavolta non la mollerò. Disco molto bello, lei folle e cazzara, recensione notevole.