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R Recensione

5/10

Five O'Clock Heroes

Speak Your Language

Il secondo disco degli anglo-americani Five O’Clock Heroes è il tipico disco che non aggiunge nulla al primo, anzi, se possibile (sì), ne svilisce retrospettivamente gli spunti perché dimostra che la band sa comporre un solo tipo di canzone e sa suonare in un solo modo. Neanche tanto bene.

I riferimenti rimangono gli stessi del godibile “Bend To The Breaks” (Clash, Jam, Strokes e affini), ma le idee languono. Le cartucce buone, è noto, questo tipo di album le scarica subito, in modo da abbindolare l’ascoltatore ingenuo che si mette a saggiare il disco alle cuffione della fnac e che dopo cinque canzoni decide soddisfatto di recarsi alla cassa, inconsapevole della beffa. Ed ecco subito “Judas”: ritmo frenetico, melodia incalzante, batteria nevrotica, inserti di tastiere che riempiono fantasiosamente i passaggi critici. Gran bel pezzo (da cercare).

Poi è tutto un declinare verso lo sciatto. Ancora divertenti l’allegro andante pop-rock di “New York Chinese Laundry”, passabile il singolo “Who”, con il contributo vocale della modella inglese Agyness Deyn: mossa astuta, quella degli eroi, che poteva fruttare qualche citazione en passant sulle sfavillanti pagine di Vogue. Temo che così non sia stato, pur non leggendo Vogue. Mi permetto di andare ad intuito.

Poi iniziano a susseguirsi pezzi basati su melodie prevedibili e ripetitive fino all’imbecillimento (“Speak Your Language”, “Alice”, “Trust”, “These Girls”), come se Ellis le avesse composte giocando con uno yo-yo. Tornano sempre indietro, questi ritornelli, non c’è niente da fare: «Alice won’t you take me back, won’t you take me back, oh Alice won’t you take me back, won’t you take me back, oh Alice» e via dicendo.

Qualche riscatto lo trovano “Don’t Say Don’t”, dal furbo ritmo reggaeggiante, e “God And Country”, il cui giro-base ricorda com’è vero iddio “London Calling”, il che dà almeno un senso di classica e granitica sicurezza. Anonimi, tutto sommato, gli altri pezzi, compresa la consueta traccia nascosta dal sapore beachboysiano (come a dire che i nostri non sanno neppure mettere i brani in un ordine diverso da quello scelto per il debutto). Spicca per idiozia, invece, “Happy Together”.

È un peccato, perché a me questi Five O’Clock Heroes davano una sensazione di freschezza, pur operando in un territorio, quale quello indie rock odierno, minato come pochi altri dalla banalità. Invece stanno diventando anche loro la classica band di cui sfili per gentilezza un paio di brani per disco da inserire in qualche compilation di amarcord estivo. Inglorioso.

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