Nothing But Thieves
Nothing But Thieves
Si sentiva decisamente la mancanza di una band come i Nothing But Thieves, nell'indie rock britannico e non solo. La scena indipendente d'Albione (completamente diverso sarebbe il discorso da fare per quella mainstream, gloriosa, nonchè unica al mondo, nel riproporre, in veste moderna, i fasti di house ed eurodance con una serie di singoli strabilianti), vuoi per la mancanza di un'adeguata valorizzazione mediatica dei propri talenti migliori ad opera delle principali riviste nazionali, che sembrano sempre di più navigare a vista nel voler lanciare giovani band per poi abbandonarle non appena si scontrino con scarsi esiti contro la linea dominante di matrice prevalentemente pitchforkiana, vuoi per mancanza di coraggio o anche solo di un sentire comune dei suoi stessi protagonisti, negli ultimi 2-3 anni ha stentato e non è sostanzialmente giunta alla creazione di un qualcosa di davvero generalizzato, inedito e significativo.
C'è stata sì una microscena, composta da una manciata di gruppi provenienti dalla città di Birmingham, i cui due principali esponenti, Peace e Swim Deep, tuttavia, non sono riusciti ad imporsi e a far proseliti, per motivi diversi: molto capaci, ma alla lunga fin troppo rimasticati i primi (la cui inglesità spintissima non sta comunque mancando di far ottener loro ottimi riscontri di pubblico, almeno in patria), talentuosissimi, ma fin troppo personali e genuinamente freak per poter attecchire su larga scala, i secondi. La sostanza è che, come prassi da quasi una decina di anni a questa parte, ancora siamo in attesa delle prossime invenzioni dei due veri, grandi fari dell'Inghilterra di oggi, ovvero Horrors e Arctic Monkeys (questi ultimi, invero, sempre meno britannici nell'animo).
Proprio dalle recenti gesta di Turner&co., non a caso, prendono spunto i cinque baldi giovani protagonisti di questo scritto, sebbene con i dovuti distinguo, dal momento che si sta parlando di una formazione piena di personalità e spunti di interesse originali, al punto tale da sfuggire a ogni possibile catalogazione in qualsivoglia corrente attuale. Frettolosamente inquadrati come eredi dei Muse, probabilmente per le caratteristiche vocali del frontman Conor Mason, ma magari anche per il fatto di aver seguito in tournèe come atto di supporto i loro multimilionari colleghi in giro per l'Europa, i Nothing But Thieves propongono una musica fortemente passionale, epica e muscolare, che sembra piuttosto rifarsi all'alternative rock dei Radiohead di The Bends, ma in una maniera per lo più priva del disagio esistenziale che contraddistinse il gruppo di Oxford e molto più tellurica. Infatti, in una fase storica in cui i gruppi chitarristici sembrano fare a gara a chi è più timido ed introverso, i Thieves non si fanno alcun problema a liberare, in tutta la loro possenza, una sezione ritmica mastodontica e le due furenti chitarre, che spesso e volentieri si raddoppiano, ottenendo così un effetto che lambisce, per potenza, territori quasi AOR o comunque da rock da arena. Una definizione, questa, da prendere con le pinze, dal momento che i nostri non sono dotati dei funambolismi tecnici che forgiarono quella scena, piuttosto preferiscono puntare su un sound granitico, compatto, ma non per questo scevro di raffinatezze stilistiche.
Si prendano, a tal proposito, le storture del devastante singolo Itch, che attacca con un arpeggio di elettrica piuttosto intricato, su cui voce e batteria si inseriscono in controtempo, senza però risultare innaturali all'ascolto. Il pathos si scioglie poi in un ritornello da cantare a squarciagola (uno dei tanti, qua dentro), in cui tuttavia i vibranti power chords seguono una traiettoria tutt'altro che lineare, fermandosi e riprendendo quasi in contrasto con la linea vocale. Già da questa canzone si possono desumere tutti gli elementi caratteristici dei Nothing But Thieves: una voce tenorile, sulla falsa riga dei vari Yorke o Jeff Buckley, ma più potente, la cattiveria nel suonare degna dei migliori complessi hard rock degli anni '70 e una formidabile naturalezza nello scrivere inni d'impatto immediato, senza perdersi mai in fronzoli. Sorprende la sequela degli iniziali quattro brani, in cui spicca, oltre alla già citata Itch, la magia dell'iniziale Excuse Me, dove Mason può mettere in mostra tutto il suo talento librandosi su vocalizzi estremamente evocativi nel ritornello. Si parlava più sopra dell'influenza degli Arctic Monkeys su questo album: ne si trovano chiari esempi nell'altro singolo di maggiore impatto, Trip Switch, dominato nelle strofe da un pachidermico basso r'n'b, con la voce che ondeggia sensuale nelle strofe, per poi lanciarsi a pieni polmoni sopra il riffone sincopato del ritornello, e in Graveyard Pins, davvero una canzone di gran classe, non fosse altro per il brillante accorgimento adottato nel bridge, che dapprima aumenta la tensione con una scala in crescendo, poi la sopprime momentaneamente con l'ingresso della chitarra acustica a riprendere la sequenza di accordi delle strofe, sui quali però la linea vocale è modificata e va ad inventarsi quasi un secondo ritornello, riconoscibile almeno quanto quello principale. Sempre sul versante crossover rock - rnb, si trova Hostage, brillante commistione di strofe cupe, pervase da penetranti feedback chitarristici e spiazzanti ritornelli, dolci come carezze, dove la chitarra in clean arpeggia delicata.
In definitva, un disco che riesce ad essere focalizzato verso il suo obiettivo programmatico, ma al contempo si rivela molto variegato e scorrevole, con perle disseminate un po' ovunque nel corso della scaletta, persino nelle bonus track della consigliata versione deluxe. In particolare, lascia di stucco come possano essere state considerate b-sides le bellissime Hanging (che, sarà per mia suggestione, potrebbe sembrare un incrocio pericoloso tra i Monkeys e i Suede) e Neon Brother, drammatica e romantica canzone indie rock capace di esplodere in un ritornello che non so quale stadio potrebbe essere in grado di contenere.
Purtroppo, ciò che impedisce a questo debutto di essere assolutamente perfetto è la presenza di alcune ballad non molto riuscite, quando non proprio bruttine (la peggiore in tal senso è probabilmente Lover, Please Stay, guarda caso la più direttamente assimilabile allo stile di Matthew Bellamy e soci). Non si capisce bene il motivo per cui non si sia preferito creare un LP interamente aggressivo o comunque senza cali di tensione. Forse per tenere fede all'estetica dicotomica muscoli-zucchero, storicamente baluardo degli hard rockers, in ogni caso, si parla di un numero esiguo di prove più opache, che non inficia granchè la bellezza dell'insieme.
Debuttato immediatamente in top 10 in UK e addirittura primo nella classifica dei vinili venduti, sembra che il quintetto stia raccogliendo meritatamente i frutti di una musica che non può che essere pensata per incontrare il favore del pubblico e che legittima il proprio successo attraverso un indubbio talento compositivo ed esecutivo. E in tutto ciò il nostro caro NME, giusto per citare quella che è la testata musicale più importante d'Inghilterra, cosa fa? Manco li recensisce. Se ci si rifiuta di riconoscere almeno uno status a un gruppo interessante, creativo, britannicissimo nella sua proposta e che sta ottenendo pure un buon riscontro, non lamentiamoci poi se tutta l'attenzione viene riservata alle (spesso) deleterie proposte di riviste dell'altra sponda dell'Atlantico...
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