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R Recensione

7/10

Jack O' The Clock

Night Loops

If you think there’ll be justice in the end / You’re an asshole, but it’s good to have a friend

Che qualcosa non vada, nella musica dei Jack O’ The Clock, lo si capta subito, inconsciamente, alla stregua di un dittero che scorga un minimo movimento fuori luogo. È una mosca (la compagna di Sam Raimi o di David Cronenberg?), o forse più di una, quella che si insinua tra i clangori metallici di una notte insonne,  tra fischi sibili sussurri riverberi schiocchi eco e qualsiasi altra apparizione sonora in grado di essere assorbita dallo spettro acustico, dirompente nel suo tagliare subitamente la tela dell’immobilità. Si modula riccamente su bassi fuori controllo, come un soul passato in candeggina, “Ten Fingers”, il monologo teatrale di chi troppo ha bevuto e fumato, il delirio post-moderno di un Erofeev da metropoli formato Tuxedomoon: l’alternarsi di quiete ed incoscienza, alterazione e stasi, la spoken music dei Dali’s Car interpretata dalle Organ. La mosca, ancora, come un’insidia perenne, una spada di Damocle che aleggia su di un impalpabile sogno lucido a tinte forti.

Il quarto, autoprodotto “Night Loops”, col pretesto di inscenare la perfetta pantomima rock in opposition per l’uomo senza qualità e senza identità del secolo vigesimo primo, diventa così fondamentale tassello di un folk americano scuro ma non apocalittico, sviato ma non a bassa fedeltà, decadente ma non decaduto. Si ascolti “Come Back Tomorrow”: acustiche paraboliche in penombra, nascostamente intarsiate di archi e fiati – come uno standard degli anni ’60 – e lambiccate sovraincisioni di slide guitar – come una tragicommedia vittoriana sospesa tra barocco e teatro della crudeltà –. Un grande episodio, che sottolinea l’eccezionalità (e l’indispensabilità) della componente performativa nell’universo tormentato dei Jack O’ The Clock: naturale è l’approdo al distonico, schizofrenico affastellarsi di voci e percussioni non convenzionali in “How The Light Is Approached” (i Residents annichiliti negli ultimi These New Puritans), coerente è la classica contemporanea di “Salt Moon” abrasa dal contrappeso ritmico art rock (lontane rimembranze dei Man Man), curiosa è la deviazione “melodica” della principesca “Down Below” (inconsueto ibrido tra Dirty Three e Long Fin Killie), struggente è il gioco crepuscolare di “Rehearsing The Long Way Home” (americana ottimamente arrangiata ed interpretata con enfasi glam).

Su tutto, il terrore atavico che qualcosa possa guastarsi, marcire, andare in pezzi, diventare preda delle mosche. La fobia della fobia, che spinge il candore irreale di “Bethelem Watcher” ad un passo dal baratro dark wave (basso sempre in primissima linea, bric-brac chitarristici cripto-prog, inquietanti organi goth che lievitano dietro le quinte). La paura dei riflessi, che costringe l’operetta da camera “As Long As The Earth Lasts” ad avvolgersi su sé stessa, a precipitare a terra, in una scomposta planata tortile simile all’incespicare di una giovane Laurie Anderson dotata di violino e pattini da ghiaccio (e quelle corde sono, in fondo, le stesse toccate da “Life On A String”). L’angosciosa ossessione del contrasto, che trasforma “Fixture” in un intricato dedalo dada (con alternarsi alogico di archi, ottoni, vibrafono) scandito da spruzzi d’acqua, pelli tese, flebili legni: i King Crimson degli anni ’90 a cui sia stata staccata la spina. Qui, come già allora lì, nulla deraglia veramente, sebbene “Furnace” si affacci a tre quarti su miasmi industrial, e “Familiar 2, Barred Owl” sia una partitura šostakovičana ricolma di afasie e disturbi ambientali. Qui, come già allora lì, è piuttosto l’ignoto ad annidarsi, come un tarlo, e a partorire spontaneamente i propri fantasmi, spettri di un futuro temuto.

Mica male, per un quintetto di Oakland, California sponsorizzato da sua maestà Fred Frith in persona.

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