Cat Power
Sun
Fissa un punto indefinito alle nostre spalle, dall’altro lato di un vetro grigio e opalescente, mentre uno spicchio d’arcobaleno le rischiara il viso incorniciato dal nuovo, cortissimo, taglio di capelli. Come se tra le nubi soffocanti e ovattate di un temporale che sembrava non finire più cominciasse a filtrare qualche timido raggio di sole. Si presenta così, Cat Power, affacciandosi dalla copertina del suo nuovo album, dopo sei anni di silenzio interrotti soltanto dalla pubblicazione di un disco di cover (Jukebox, nel 2008).
Sei anni non facili, come lo scatto lascia intendere e come più volte ammesso dall’autrice: dal successo internazionale di The Greatest che sembrava preludere alla definitiva consacrazione pop dell’ombrosa donna-gatta, alla profonda ricaduta in quei problemi di alcolismo e depressione che ne avevano sempre minato la vita privata e la carriera, il ricovero in ospedale e il lungo trattamento di riabilitazione che le sono costati i risparmi di una vita costringendola, nel 2007, a dichiarare bancarotta (ecco: uno dei pochi motivi per cui il signor Obama meriterebbe di essere rieletto), poi la lenta ripresa e la sofferta gestazione dei suoi nuovi progetti musicali. Dopo aver scartato gran parte del nuovo materiale perché “troppo doloroso e personale” e perché “suonava proprio come la vecchia depressa Cat Power” , la Marshall ha cominciato a prendere confidenza con la scrittura elettronica, abbandonando chitarra e piano in favore di un “vecchio e buffo sintetizzatore” ed ottenendo scheletri di canzoni che avrebbe poi rimpolpato in seguito, accantonata la fedele Dirty Blues Band, suonando da sola tutti gli strumenti.
La rifinitura dell’inedito sound design è stata poi affidata ad un team specialisti fra i quali Brian LeBarton (tastierista, programmatore e storico collaboratore di Beck) e Philippe Zdar (metà dei Cassius) che si è occupato del missaggio finale. Il risultato è una sterzata netta dal suono caldo, vintage e analogico di The Greatest, in favore di basi electro punteggiate di drum machine, drappeggiate di loop, sottili pattern sintetici e brevi frasi di tastiere. Una trama geometrica ed essenziale su cui la Cat può innestare il suo retroterra blues, country e soul in versione indie, la sua interpretazione ruvida e carezzevole, scostante e palpitante, le sue linee vocali vissute e feline.
Schermandole, in parte, come se volesse trascorrere la sua convalescenza dentro una bolla viscosa e protettiva, una specie di tenda a ossigeno elettronica. Non sempre le due componenti del suo sound, quella più tradizionale e quella più sperimentale, si amalgamano alla perfezione (non come in Yankee Hotel Foxtrot dei Wilco, per dire), qua e là sembrano più semplicemente giustapposte e ci vuole un po’ di tempo (e una buona dose di ascolti) per entrare in confidenza con la nuova Cat Power, per abbandonare quel senso di disagio iniziale, direttamente proporzionale alla conoscenza/apprezzamento degli ultimi tre o quattro (eccellenti) lavori della Gatta. In fondo, però, basta l’opener “Cherokee”, scalpitante e solenne, con le sue rullate marziali, la sua “wilderness” manipolata da echi digitali, ma soprattutto il tocco scarno della chitarra e quella voce sempre inconfondibile, per sciogliersi un po’.
Al confronto la title-track sembra già più effettata, costipata con quell’autotune, così invadente e inusuale per una come lei, eppure impiegato in maniera creativa, vibrato su una sorta lieve canto pellerossa, mentre “3,6,9” è solo in apparenza più pop e spensierata - il groove quasi alla Beck fra miagolii di quinta e clappin’ e coretti da girl group - visto che il testo parla di alcol, solitudine e abbandono, di vecchie abitudini che non vogliono morire. “Ruin”, l’unico pezzo in cui suona la Dirty Delta Blues compreso il fondamentale Jim White dei Dirty Three, si accosta più alle atmosfere di You Are Free, con un post punk dalle movenze quasi funky, come pure la graffiante, cantilenante, melanconica “Always On My Own” (e “Real Life”). Che la svolta sonora in atto non sia radicale ma più che altro di assestamento lo confermano i richiami a The Greatest sublimati in “Manhattan” con i pallidi afrori della melodia west-coast sul beat uptempo, “Nothing But Time” e il suo cantato soulful e innodico (bello il mellotron anni 70, meno il cameo di Iggy Pop, ancor meno il fatto che il pezzo si trascini per 10 interminabili minuti) e la conclusiva “Peace And Love”, bluesy e sixties, fino ad un finale quasi raga. Anche se i brani migliori escono fuori alla distanza, quando la Cat si libera di ogni residua incertezza o inibizione e fa semplicemente quello che sa fare meglio: gli accenti e le metriche dylaniane di “Human Being” accompagnati dal picking acustico sferzante e dal beat metronomico o lo spigoloso, incalzante riff blues di “Silent Machine” spolpato verso la metà da un break di bassi e riverberi quasi dubstep.
Un ritorno che se non dissipa tutti i dubbi della premessa, che scaturiscono in parte dal sempre ingombrante paragone con il glorioso passato recente di una delle migliori cantautrici dell’ultimo decennio/ventennio, indica perlomeno una forma discreta e una rinnovata, per quanto fragile, serenità personale e artistica.
Tweet