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R Recensione

6,5/10

King Tuff

Black Moon Spell

Alla prossima festa porterò quest’album. Un paio di birre low cost e parte l’headbanging, proprio come la ragazza nel video non ufficiale di “Black Moon Spell”, singolo garage sporco e cattivo dal riffone glam godereccio. Kyle Thomas, alla terza esperienza su disco, seconda per la Sub Pop, fa parte di quella massa di musicisti fancazzisti e disagiati che rispondono ai nomi, ad esempio, di Ty Segall (che nella title track è alla batteria) , Thee Oh Sees, Wavves, aggiungiamo anche i Foxygen per il gusto West Coast, ognuno più o meno rintracciabile nel sound di questo “Black Moon Spell” e che ci regalano attimi di spensieratezza cancellando a colpi di fuzz la noia della vita quotidiana. La fascinazione retrò per loro è sempre dietro l’angolo e Thomas non viene meno; in questo caso soprattutto T-Rex , con uno sguardo rivolto anche ai Dinosaur Jr.

Ma veniamo all’album. Non sono ammesse pause nella prima metà del disco, che parte con l’acceleratore a tavoletta: oltre la title track, che fra riff e ritornello ossessivo stile Marc Bolan esprime al pieno il potenziale catchy della ricetta di King Tuff, il plettro sferraglia sulle corde nel surf-garage di “Sick Mind” e lungo l’assolo scalcinato di “Rainbow’s Run”. Cos’altro aggiungere poi di una canzone che si chiama “Headbanger”? Se non che potremmo stare saltando sul divano pronti all’hand clapping della successiva “Beautiful Thing”, che ha la progressione di un piccolo classico. C’è spazio per i divertissement ironici come “I Love You Ugly” (“I don’t care if you smell like rats, I love you, I love you ugly”) e le dichiarazioni di amore alla musica sublimata in un surf 60s di “Black Holes in Stereo”.

Eyes Of The Muse” dimostra che le coloriture di cui è capace King Tuff non si limitano alle schitarrate, regalando un altro singolo meno dirompente ma più ricco. A conferma arriva il pop psichedelico d’antan di “Staircase of Diamonds”, phaser ed echi danzano sulla chitarra acustica. Ancora boogie chitarristico in chiusura con “Eddie’s Song”, ancora hand clapping, viene voglia di far ripartire tutto da capo.

Uno di quei dischi che non innovano né stupiscono, ma di cui si ha sempre bisogno. Facciamolo ripartire, e voi portate altre birre.

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