Soundtrack of Our Lives
Communion
Credo che chiunque dotato di un minimo di buon gusto inizierebbe questa recensione parlando male della copertina più brutta di tutti i tempi mai esibita da un disco rock. E difatti il sottoscritto pensando che i propri gusti siano ottimi ha pensato di cominciare con questa ovvia osservazione, stigmatizzando sulla banalità di tale intervento con queste righe che tendono a spiegare il motivo per cui questa recensione inizierà come i nove decimi di quelle presenti in circolazione. Ma bando alle ciance, passiamo ai fatti nudi e crudi: The Soundtrack of our Lives, ossia TSOUL. Sesto album. In attività dal 1996. Svedesi. Praticamente i nipotini adottivi di Kinks e Pink Floyd.
Troppo in fretta? Ok allora rallentiamo mostrando il nostro apprezzamento per una band che nonostante non abbia inventato praticamente nulla ha regalato negli anni una più che pregevole serie di dischi revival-rétro-passatisti, andando a ripescare un po tutti i mostri sacri che si ritrovano sui libri di storia del rock nel periodo 1965-75. Un po come molti insomma, visto che solo pochi giorni fa capitava di fare lo stesso discorso parlando dellesordio solista di Dan Auerbach.
Qual è il problema? Nessuno, ovviamente, fermo restando che in questi casi il pericolo è il solito: quello che col tempo si arrivi a proporre la stessa, pur bella, canzone, ripetuta in mille salse e variazioni diverse ma in fondo dai tratti generali simili.
La mente si diverte a giocare con un vecchio ritornello dei CCCP (la prima volta ti fa tremare, la terza volta ti fa pensare, la quarta volta stai a guardare) che ben si adatta alla situazione, nonostante estrapolato da altro contesto. I TSOUL però non sembrano curarsi troppo di questi pericoli e dopo labbuffata di scarti e b-sides di A present from the past (2005) tornano con un album vero che a cinque anni di distanza dal più che egregio Origin Vol.1 (2004) non esita a schiaffarti in faccia ben ventiquattro pezzi in un doppio di lusso. Tanta, davvero tanta roba. E in effetti pure troppa, che se il primo disco regge in effetti alla grande il secondo cala inesorabilmente, tanto da maledire lidea di aver messo tanta carne al fuoco senza aver abbastanza fiammella.
Ed è davvero un peccato perché invece di stare a guardare e, per la verità, lanciare pure qualche sbadiglio, ora potremmo esser qui a magnificare lennesimo ottimo gioiellino di pop psichedelico soft in stile 70s.
Il primo disco infatti parte davvero forte, con lincedere mistico alla Brian Jonestown Massacre di Babel on e lo space-pop passionale in stile Spiritualized di The ego delusion. Un paio di pezzi che mostrano come i TSOUL non siano del tutto avulsi da rielaborare con tocco felpato vecchie e solide ispirazioni. Gli episodi morbidi ovviamente non mancano però riescono a sfuggire la staticità con finali strumentali psichedelici acidi. E il caso di Universal Stalker e Second life replay: la prima meritevole per le soffuse tastiere a creare veli di velluto in salsa dream pop; la seconda una ballata tragica con tanto di ripetuto I kill my self today.
Trovano spazio anche i Rolling Stones nello street-rock devastatore di RA88 e in Thrill me, intrisa anche di reminiscenze country-rocknroll alla Creedence Clearwater Revival. Più o meno la stessa ricetta di Mensas marauders, anche se questultima di stampo più vicino allheavy-blues dei Cream. E così tra saluti fugaci al fantasma di Manzarek (Just a brother) e una serie di riff heavy in stile Jeff Beck (Distorted child) non si può non ricordare un paio di pezzi senzaltro anomali per struttura e influenze: Fly ricorda infatti terribilmente gli Eels di Blinking lights, ma in un formato anomalo, come se venissero rispediti nel passato a suonare assieme a dei Beatles dotati di un batterista cazzuto. E poi cè Pictures of you, altro piccolo motivetto beatlesiano cui vengono inaspettatamente aggiunti fragori e ribaltamenti degni di gruppi heavy-prog come Van Der Graaf Generator e Premiata Forneria Marconi.
E fin qui un piccolo uao! non si può certo celare, che tra molti alti e pochi bassi si scorre via che è una meraviglia, con un disco ben bilanciato, mordente, vivace e raffinato. A rovinare il tutto, lo dicevamo è il secondo disco di Communion, mucchio di nenie languide e indolenti che tentano invano di ricreare le magiche atmosfere di Spacemen 3-Spiritualized (le soporifere Everything beautiful must die, Reconnecting the dots, Without warning, Lifeline). Tentativi di variare ci sono ma non colpiscono nel segno: così il country-folk americano di The fan who wasnt there, così la Flipside figlia della Band, così la piatta coralità sinfonica tendente al patetico di Songs of the ocean.
Qualcosa qua e là si salva certo, ma è troppo poco: il giochino chitarristico un po lezioso di Digitarian riverbank, in grado di ricreare alla perfezione lo stile che Jimmy Page esibiva in Brown y aur; il tessuto musicale più brioso e avvincente di Lost prophets in vain, in grado di incrociare con successo Johnny Cash, Rolling Stones e Eels; il genuino rock 70s rivisto in chiave Six by Seven di Utopia; la Saturation wanderers in formato guitar heroes del pop; fino al più che dignitoso intreccio finale di The passover, in cui tribalità dei Brian Jonestown Massacre torna a farsi largo fondendosi con motivi pop gallagheriani.
Troppo poco però per salvare un secondo disco molto mediocre e noioso. Ed è un peccato che il giudizio finale sia così stretto perché limpressione è che di canzoni davvero entusiasmanti se ne siano sentite a bizzeffe. E neanche così uguali tra loro Peccato solo si faccia fatica a ripescarle dallenorme cesto confezionato dai TSOUL. Vedremo se la settima prova sarà più concisa e meno dispersiva.
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