Blackfield
IV
Non tragga in inganno la copertina evocatrice dei lavori ambient-elettronici di Steven Wilson, pubblicati a nome Bass Communion. L'autore è in effetti lo stesso il graphic-artist Carl Glover ma qui le coordinate astrali sono quelle del fugace pop-rock melanconicamente orchestrale ideologizzato dai Blackfield ad inizio Anni 2000: l'estrema orecchiabilità è dunque la caratteristica fondante anche di questo nuovo album, composto dal solo Aviv Geffen Mr. Wilson si limita stavolta ad un singolo contributo come lead-vocalist e al mix nella forma brani in miniatura che raramente sforano i tre minuti e che neppure ci provano ad approfondire e a sviluppare tematiche sonore più ardite. Tutto e subito, senza il bisogno di dover dimostrare qualcosa di nuovo o di coraggioso. Neanche le ospitate di Jonathan Donahue (Mercury Rev) nella ninna-nanna piccola piccola The Only Fool Is Me, di Vincent Cavanagh (Anathema) nella scialba X-Ray, di Brett Anderson (Suede) nella pur intrigante Firefly una piccola gemma, ammettiamolo possono sollevare le sorti di un disco zuccheroso e portatore di un fascino che evapora ai primi raggi di un sole primaverile. In termini di apprezzamento il podio viene conquistato da Lost Souls che col suo incedere concitato e con una melodia indie-soul-rock avvincente ricorda da vicino gli indimenticati Doves, da Jupiter, la perfect pop-song interpretata da Steven Wilson (imperdibile il video dell'arista israeliana Ilana Yahav), la graffiante miscela rock '60s di Kissed By The Devil reminiscente tanto degli Oasis quanto dei Tears For Fears. Interessante anche l'episodio conclusivo After The Rain che, solcato comé da tremori elettronici, può far balenare un riflesso dei Radiohead: ma dura talmente poco da non concedere neppure il tempo di godersi la suggestione. Al di là di Pills, in apertura lavoro, tutta tesa a rievocare le aspirazioni del primo opus dei Blackfield o dei Porcupine Tree più melodici e della citata Firefly è dunque la seconda metà di "IV" a regalare qualche spiraglio di luce e di speranza in qualcosa di migliore: ma parliamo comunque di un album che dura appena 31 minuti (quanti EP durano di più?) e che non può essere riscattato da una manciata di pezzi appena al di sopra della media. Gli echi dei Coldplay ritornano a più riprese Sense Of Insanity il punto di maggior consonanza: ascoltare larpeggio iniziale per credere a ribadire l'essenza-esigenza comunicativa perseguita da Aviv Geffen. Che è e resta un raffinato compositore/produttore/pop-artist sebbene introdotto da Steven Wilson ad un songwriting più articolato ed ombroso: ma davvero le ambientazioni che diedero vita al primo omonimo disco dei Blackfield (era il 2004) restano relegate in un momento di magia sospeso nel tempo e ormai lontano.
Quel che c'è oggi in "IV", anche se qualitativamente superiore al precedente "Welcome To My DNA", è davvero ancora troppo inconsistente e fuggevole per delineare quello che definirei un album di spessore. E forse anche Mastro Wilson, che si è sempre concesso unampia gamma di diversivi sonori, oggi che è così focalizzato sulla sua carriera solista una carriera definitivamente prog-oriented deve aver pensato che era ormai impossibile mantenere il piede della sua identità musicale in due staffe così dissimili, optando per un ruolo davvero marginale in IV. Ma, tanto per non sbagliare, il primo singolo Jupiter è proprio quello a cui da la voce.
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