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R Recensione

7/10

Three In One Gentleman Suit

Notturno

Il 20 maggio del 2012 – forse qualcuno lì fuori ancora se lo ricorda – il nordest venne colpito da un brutto terremoto, evento del tutto inconsueto per terre solamente colpevoli di troppa rassegnazione al cemento: ventiquattro furono le vite falciate dall’evento, danni quantificati (e mai risarciti) in decine di miliardi di euro. Di Finale Emilia, simbolo del disastro con quella sua torre squarciata e lancinante, sarebbe stato indicato lo scioglimento per concorso in associazione mafiosa, tre anni dopo. Scherzi del destino di un paese crudele e paradossale. Da Finale Emilia a Padova – se permettete, preferisco ricordare questo – giunsero, nel giugno di quell’anno, i Three In One Gentleman Suit. Avrebbero suonato in uno splendido benefit per i musicisti direttamente interessati dal sisma, assieme a Bob Corn e Redworms’ Farm. Mi aspettavo un set blando e poco incisivo, così come blando e poco incisivo – nonostante aspettative di alt(r)o rilievo – era il disco allora portato in tour, “Pure”. Fu, invece, un concerto teso, intensissimo e palpitante, dalla prima all’ultima nota: una scossa per il corpo ed un balsamo per lo spirito.

Da questo turning point finanche imprevisto (a posteriori, simile a quello che ai miei occhi interessò i Gazebo Penguins di “The Name Is Not The Named”: preistoria, oramai), una nuova prospettiva sul power trio emiliano. Così che dal quinto lavoro in studio, primo per To Lose La Track, sapientemente denominato “Notturno” (non ce ne voglia il Penteo euripideo, ma è proprio di notte che le cose migliori prendono corpo e sbocciano), si suggono le medesime, ottime impressioni stabilmente registrate dal vivo. Se la curva gaussiana di certo indie italiano prevede che i dischi più ostici, a livello commerciale, vengano scritti ad inizio carriera e, con le prove successive, lo stile vada levigandosi e denudandosi, i Three In One Gentleman Suit scelgono la direzione opposta: passano gli anni ed il loro suono si stratifica, divenendo strutturalmente complesso senza perdere in fruibilità. È la sempre maggiore cura degli arrangiamenti a fare la differenza: lambiccati scrigni electro-wave, abiti dream pop e pulsazioni noir di varia fattura vanno ad arricchire una base solida e spigolosa, spiccatamente matematica nell’incastro (sempre belli ed avvincenti i riff di Giorgio Borgatti) ma dalle traspirazioni emo/post rock (il cantato rotto ed imperfetto di Paolo Polacchini, le melodie da ganasce al cuore).

Tra i vari ospiti, tre sono i nomi di rilievo: il violino e la viola di Nicola Manzan sottolineano la filiazione più Minerals degli stessi Minerals di “Ashes” (il romanticismo degli anni ’90 lasciato in sospeso), la chitarra di Stefano Pilia e l’organo Farfisa di Bruno Germano contribuiscono a dar volume all’uragano conclusivo di “Medusa”. Il maggior pregio di “Notturno”, tuttavia, è quello di lasciarsi ascoltare tutto d’un fiato, senza la necessità di doversi fermare per un’inquadratura ad episodi: le epiche infiltrazioni elettroniche di “Deafening Dawn” (tracce delle recenti evoluzioni ritmiche dei Massimo Volume di “Aspettando I Barbari” e gestione ottimale delle dinamiche) si accompagnano alle delicate tessiture strumentali del ritornello di “Jungle Frenzy” e all’iniziale “Nightshift”, la più gradita sorpresa dell’intero disco, un deciso math dall’obliquo piglio melodico che sembra prodotto dagli Aucan di “Black Rainbow”. È così ricco di dettagli, “Notturno”, che a tratti si rischia persino di perdere il bandolo della matassa (bastino per tutti i ghirigori chitarristici di “Black Harp”, tagliati su misura per un disco dei Crash Of Rhinos), sebbene si susseguano poi episodi maggiormente lineari (una “Parallels” che, come fatto già notare altrove, ha molte affinità con gli Xiu Xiu) ed altri in ombra (“Spiders” è troppo enfatica).

Notturno”, oltre il contributo sintetico, è un disco profondamente umano, sincero, di quella candida onestà che solo chi non ha nulla da nascondere può offrire. Sarà un piacere risentire dal vivo questi brani.

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