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R Recensione

6,5/10

Pueblo People

Giving Up On People

Per il solo fatto di essere caparbiamente fuori dal suo tempo, l’esordio lungo dei milanesi Pueblo People, “Giving Up On People” (giunto a due anni di distanza dalla cassettina “The First Four Moons” e ad uno dal 12” “Sentiero Di Guerra”), meriterebbe un encomio tutto speciale. Girando per il sottobosco italiano, avrete occasione di ascoltare dischi indie, stoner, IDM, metal, dark wave, hip hop, free jazz, psych rock: ben difficilmente, tuttavia, incapperete in qualcosa che assomigli all’oggetto del nostro disquisire. Nello sconfortato, sonnolento muso dell’husky di copertina v’è la pigrizia congenita di mille pomeriggi tutti uguali, lo scazzo ed il sudore della cameretta, l’indolente frustrazione dell’adolescente e dei suoi amplificatori, una vita di provincia che è tomba di ogni aspirazione poetica: le “simple songs for the end times” si materializzano in un coacervo di slacker a bassa fedeltà, indie rock, i Crazy Horse, le chitarre traslucide e fragranti del rock’n’roll primigenio, una voce rotta dall’incertezza in cui si risentono Stephen Malkmus, J Mascis, Ash Bowie e chissà quanti altri. È, in tutto e per tutto, depeche mode

L’unico nome italiano dell’ultimo decennio al quale mi sentirei di accostare i Pueblo People – non fosse altro per il revival di comuni influenze – è quello dei giovani catanesi Loveless Whizzkid, da noi ascoltati con attenzione ed accolti con benevolenza un paio d’anni orsono. Mentre questi ultimi, tuttavia, dimostravano di subire l’influsso del rock americano a tutto tondo – incluse le sue derive più spigolose e rumorose –, “Giving Up On People” non abbandona mai l’osso della melodia: nemmeno quando, proprio sul finire, i toni sembrano irrobustirsi, la linearità della narrazione incresparsi in una serie di tic nervosi (“What’s wrong in me?”, ci si chiede in una schizofrenica “Comfort Warzone”: praticamente Pixies + Putiferio). Le melodie!, già!, impossibile dimenticarsene: spuntano ovunque, si intrecciano, si incidono a fuoco nel cervello. Che effetto vi farebbe sentire Buddy Holly interrompere un check dei Built To Spill? Pompate “King Of The Moral Capital”. La pasta chitarristica di “The Truth (Is In Here)”, granulosa e sgangherata, viene controbilanciata dalla sua spiccata vocazione alle traiettorie dell’emo storico: “Shit Hits” è il provino ideale per ogni malandato, apatico crooner da scantinato; incrociate il brillantissimo songwriting dei Weezer del 1994 (i primi prodotti da Ric Ocasek: non a caso, The Cars sono altro riferimento chiave per questi pezzi) con le (di molto) maggiorate capacità tecniche del 2015 ed otterrete “Dog People”, autentica meraviglia novantiana che veleggia su di un basso poderoso.

È musica spiccatamente umorale, sincera fino al parossismo, imprevedibile nel suo orgoglioso passatismo, bizzarra nel suo lievitare e conquistare esponenzialmente, a tratti ingenua (“The Way”). Comunque vada, da un gruppo che mette in fila “Contemporary Life” (malinconico guitar rock da maestri) e “Not Nothing” (se i Thrills di “So Much For The City” avessero conosciuto Robert Pollard…) non ci si può aspettare altro che il meglio del meglio.

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