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R Recensione

6,5/10

There Will Be Blood

Beyond

Riascoltando “’Til Death Do Us Part”, l’epilogo bandistico su cui calava il sipario narrativo del precedente “Horns” (2016), torna a stagliarsi chiarissima una percezione, qualcosa che è ben più di un vago sospetto: ai varesini There Will Be Blood aveva cominciato a stare stretto quell’essenziale formato da power trio (perdipiù bassless) attorno al quale, fino a quel momento, avevano impostato l’intera carriera. Lo si avverte nell’ampiezza cromatica dell’arrangiamento, all’altezza dei grandi classici dell’indie rock canadese d’inizio millennio; lo si intuisce dalla profondità dell’interpretazione, tendente ad una polifonia ingentilita. L’evoluzione naturale di questa ricerca formale sboccia compiutamente nel quarto full lengthBeyond”, la cui prima versione – grossomodo approntata, nella sua interezza, già un anno e mezzo fa – è stata successivamente interessata da importanti modifiche strutturali, in concomitanza al temporaneo trasferimento del cantante Davide Paccioretti a Chicago e al successivo ampliamento della line up a cinque elementi (le new entry sono il tastierista Davide Varoli e il chitarrista Emanuele Nebuloni).

L’epico immaginario della copertina d’autore (la firma è di Martin Wittfooth, di cui era già nota la collaborazione coi Rival Sons), degno di un volume zeppeliniano e vagamente vicino a quello dei primi Wolfmother, rivela da subito qualche indizio sulla rinnovata densità di un concept che, dopo la precedente trilogia del viaggiatore, si propone come atto unico di una nuova e più intima tragedia: il protagonista è un ragazzo che, di fronte alla perdita della madre, è costretto a fare i conti con sé stesso e ad abbracciare il metaforico “oltre”. Sostanzialmente bifronte è l’approccio dei There Will Be Blood che, accanto ad episodi che non sfigurerebbero affatto tra gli highlights di un ipotetico canzoniere (ma la conduzione testosteronica di “Flee Georgia”, quasi à la QOTSA, per un momento scivola sul piano inclinato di un assolo chitarristico ambientale), conducono esperimenti assai più ambiziosi: se ad attirare da subito l’attenzione sono il singolo “Fiere” (piano honky tonk, tamburi ossessivi, una teatrale sezione centrale per gli orientalismi vocali di Nadia Scherani) e la lunga “Catrina”, micro musical in equilibrio precario tra puntinismo mariachi e dilatati miraggi desertici (con un refrain strumentale per piano e tromba, suonata dall’ospite Massimo Marcer, che punta quasi all’arena rock), lo stoner-boogie iperchitarristico di “Cockadoodledoo” e i Black Mountain prog di “Mountain Howling” (di cui si apprezza soprattutto l’inaspettata svolta groove-oriented di metà minutaggio, una sberla al clavinet di rara efficacia) si distinguono per la medesima tensione alla stratificazione strumentale, al moltiplicarsi degli elementi funzionali.

L’azzardo, anche grazie ad una particolare attenzione accordata alla resa materica della paletta sonora e al rilievo di primissimo piano assunto dalla sezione ritmica, regge a lungo, regalando almeno un paio di brani killer (a detta di chi scrive, l’adrenalinico disco-funk corale di “Body Money”, una “Back From The Dirt” che rifà “Smooth Sailing” in chiave punk-funk) e finendo per perdere quota solamente per il vizio di forma di un minutaggio esagerato, ulteriormente diluito da qualche episodio tutt’altro che indispensabile (la didascalica e monodimensionale “Death Maiden”, l’appendice hard-blues di “Troubled Son”). Il passaggio dal mezzo vuoto al mezzo pieno è forse stato un po’ più repentino del dovuto, ma la prima uscita dei TWBB “allargati” può considerarsi felice.

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