There Will Be Blood
Beyond
Riascoltando Til Death Do Us Part, lepilogo bandistico su cui calava il sipario narrativo del precedente Horns (2016), torna a stagliarsi chiarissima una percezione, qualcosa che è ben più di un vago sospetto: ai varesini There Will Be Blood aveva cominciato a stare stretto quellessenziale formato da power trio (perdipiù bassless) attorno al quale, fino a quel momento, avevano impostato lintera carriera. Lo si avverte nellampiezza cromatica dellarrangiamento, allaltezza dei grandi classici dellindie rock canadese dinizio millennio; lo si intuisce dalla profondità dellinterpretazione, tendente ad una polifonia ingentilita. Levoluzione naturale di questa ricerca formale sboccia compiutamente nel quarto full length Beyond, la cui prima versione grossomodo approntata, nella sua interezza, già un anno e mezzo fa è stata successivamente interessata da importanti modifiche strutturali, in concomitanza al temporaneo trasferimento del cantante Davide Paccioretti a Chicago e al successivo ampliamento della line up a cinque elementi (le new entry sono il tastierista Davide Varoli e il chitarrista Emanuele Nebuloni).
Lepico immaginario della copertina dautore (la firma è di Martin Wittfooth, di cui era già nota la collaborazione coi Rival Sons), degno di un volume zeppeliniano e vagamente vicino a quello dei primi Wolfmother, rivela da subito qualche indizio sulla rinnovata densità di un concept che, dopo la precedente trilogia del viaggiatore, si propone come atto unico di una nuova e più intima tragedia: il protagonista è un ragazzo che, di fronte alla perdita della madre, è costretto a fare i conti con sé stesso e ad abbracciare il metaforico oltre. Sostanzialmente bifronte è lapproccio dei There Will Be Blood che, accanto ad episodi che non sfigurerebbero affatto tra gli highlights di un ipotetico canzoniere (ma la conduzione testosteronica di Flee Georgia, quasi à la QOTSA, per un momento scivola sul piano inclinato di un assolo chitarristico ambientale), conducono esperimenti assai più ambiziosi: se ad attirare da subito lattenzione sono il singolo Fiere (piano honky tonk, tamburi ossessivi, una teatrale sezione centrale per gli orientalismi vocali di Nadia Scherani) e la lunga Catrina, micro musical in equilibrio precario tra puntinismo mariachi e dilatati miraggi desertici (con un refrain strumentale per piano e tromba, suonata dallospite Massimo Marcer, che punta quasi allarena rock), lo stoner-boogie iperchitarristico di Cockadoodledoo e i Black Mountain prog di Mountain Howling (di cui si apprezza soprattutto linaspettata svolta groove-oriented di metà minutaggio, una sberla al clavinet di rara efficacia) si distinguono per la medesima tensione alla stratificazione strumentale, al moltiplicarsi degli elementi funzionali.
Lazzardo, anche grazie ad una particolare attenzione accordata alla resa materica della paletta sonora e al rilievo di primissimo piano assunto dalla sezione ritmica, regge a lungo, regalando almeno un paio di brani killer (a detta di chi scrive, ladrenalinico disco-funk corale di Body Money, una Back From The Dirt che rifà Smooth Sailing in chiave punk-funk) e finendo per perdere quota solamente per il vizio di forma di un minutaggio esagerato, ulteriormente diluito da qualche episodio tuttaltro che indispensabile (la didascalica e monodimensionale Death Maiden, lappendice hard-blues di Troubled Son). Il passaggio dal mezzo vuoto al mezzo pieno è forse stato un po più repentino del dovuto, ma la prima uscita dei TWBB allargati può considerarsi felice.
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