Brimstone
Mannsverk
Quando ancora si chiamavano The Brimstone Solar Radiation Band (un filino troppo impegnativo, ne converremo) scrissero ed incisero un disco-miracolo, variegato e sublime sposalizio tra le armonie corali dei Beach Boys, la solidità merseybeat dei primi Beatles, i Motorpsycho pop dinizio Millennio e, qua e là, scorie di un novantiano passato, sudato e frustrato, muscolare ed introverso. Lo chiamarono Smörgåsbord, come il tipico buffet nordico self service a base di piatti freddi e caldi, perché proprio non ci sarebbe stata indicazione migliore. Manco a dirlo, in Italia non se ne curò praticamente nessuno. Come nessuno, ad oggi, sembra essersi interessato a quanto cè stato dopo: lasciugamento del monicker al solo Brimstone (quasi più minaccioso del consentito), cinque anni per assemblare nuovo materiale ed il rilascio, a marzo, di questo Mannsverk, quarto full length per il quartetto di Bergen. Sarà norvegiocondiscendenza, necessità di aggiornare la ventura top ten, desiderio di spargere la voce su un grande lavoro: sarà. È quantomeno singolare che, in un mondo dove Steven Wilson viene considerato un genio e quel che rimane dei Goblin riesce a suonare al Roadburn (giusto per citare i due aspetti del vecchio: quello deteriore e quello affascinante), un gruppo così rodato ed inventivo non riceva alcun feedback. Ci penseremo, allora, noi, nel nostro piccolo.
Scrivono gli stessi Brimstone di essere tornati meaner, leaner, hungrier and proggier [ ] than ever. Dei quattro, solo gli estremi prendono forma nellavanzare tecnico e compassato di A Norwegian Requiem, dove le chitarre ovattate di Buckethead, melodicamente arzigogolate e in equilibrio perennemente precario, turbinano incessantemente nel mulinare di colpi della sezione ritmica (a tornare in mente sono gli alfieri del neo-prog scandinavo Elephant 9). La storia, insomma, sembrerebbe quella della solita, smisurata ambizione che frustra le pur valide intuizioni, erigendo loro attorno mura troppo impervie per essere scalate: e la pompa, quella strumentale, effettivamente non si sgonfia, ma muta pelle, trasformandosi in una malinconica fanfara arrangiata per fiati e clavicembalo. Alle tastiere space che patinano di unostinata (e un po tenera) autoreferenzialità vintage gli incastri scombinati di basso e chitarra in Rubberlegged Man pare vada peggio: il brano, tuttavia, vira nuovamente nella sua seconda metà, intrappolando il cantato vagamente melodrammatico di R. Edwards (come dei Radiohead venticinque anni prima di Ok Computer) in una ragnatela indie rock. Si coglie la coerenza e lunitarietà dellevoluzione quando, poco oltre, lanimale funk di Voodoo (impreziosita da solismi chitarristici hard rock suonati in dinamiche praticamente jazz, similarmente ai Bushmans Revenge) si stempera in uno stornello brit-folk del tutto inaspettato.
La fantasia di Mannsverk, allora, non incontra più barriere, non conosce più limiti. Può capitare di confondere il tocco di Thomas Grønner (dinamico, fluidamente sparigliato in micro sequenze, malleabilissimo) con quello di Kenneth Kapstad dei Motorpsycho, mentre i sodali intonano limeneo che gli Yes non hanno mai scritto per Brian Wilson (Flapping Lips At Ankle Height, o del call&response gospel in tempi dispari). A spezzare il ritmo, prima della densa doppietta finale, cè una perla alt-folk come The Giant Fire. Infine. Sjø & Land è una magistrale suite appoggiata su eteree melodie per Hammond e corposi bassi che, tra White Willow e Fleet Foxes, cresce esponenzialmente, scaricandosi in una coda di trascendente magnificenza armonica. This Is The Universe saluta con sfarzo, retrodatando ulteriormente la genealogia: Greg Lake accenna qualche passo di flamenco in un ribollente calderone prog-jazz (mutevole, ma sempre impeccabile, lalternanza di toni e nuances) dove tutto suona al proprio posto.
È retromania, ed è meravigliosa.
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