Colin Stetson
All This I Do For Glory
Fra vent'anni si parlerà di Colin Stetson come di colui che forse più di ogni altro ha sfidato i dogmi della musica contemporanea.
Naturalmente non è il primo musicista che avvicina il jazz libero alle idee dell'avanguardia europea della seconda metà del '900. Esistono vari testi sull'argomento, ma per comprendere il fenomeno si può anche cimentarsi con qualche lavoro: Anthony Braxton ha aperto la strada in America, sostituendo alla complicazione armonica furiosa di Coltrane un'architettura più razionale e minimale; trasformando le imprese titaniche di Trane in qualcosa di ancor più cervellotico e radicale.
In Europa, negli anni '70, si andrà persino oltre, portando di peso le idee del jazz dentro le strutture della musica d'avanguardia per coniare un linguaggio che ancora oggi suona ostico, incoerente, violento. Jackson Pollock si mette a suonare jazz, ma la sua proposta che non vuole avere nulla di liberatorio e di esplicitamente emotivo. Von Slippenbach, Mangelsdorff (che porta le idee in un campo ancor più estremo: improvvisa con il solo trombone), Brötzmann e in Inghilterra Evan Parker studiano la musica in termini estremamente logici. E terrificanti: il loro linguaggio sembra riservato agli iniziati anche quarant'anni abbondanti più tardi.
Colin Stetson, a modesto avviso di chi scrive, da anni segue le orme dell'avant jazz chicagoano e soprattutto europeo, portando la musica afroamericana dalle parti di Steve Reich e di Phil Glass. E lo fa in modo assolutamente originale, non solo per la strumentazione prescelta: ogni volta introduce un'idea nuova, all'interno di uno schema che pare ricalcare i precedenti, e sposta gli equilibri. In modo impercettibile ma decisivo.
All This I Do For Glory è il cugino delle History date alle stampe a inizio decennio: scava dentro il buco nero del sassofono baritono, scovando sonorità siderali.
In termini di reazione fisica, l'effetto è simile a quello dei giri di basso subliminali dell'IDM: ma qui il discorso si fa ancor più denso e complesso. Colin Stetson è un artista concettuale (l'accostamento a Jackson Pollock vale anche e soprattutto per lui) il cui impatto fisico risulta paradossalmente viscerale, quasi violento.
L'idea che posta gli equilibri, in questo caso, è avvicinare in modo più esplicito l'universo pop (in senso lato).
Like Wolves on the fold combina i salti quantici del legno con acuti alla Bon Iver, tanto che potrebbe sembrare un featuring. Il giro costante dei bassi elettronici apre uno squarcio sull'IDM più evoluta destinato a non rimanere isolato: Between Water and Wind - specie nella lunga introduzione nevrotica - è un chiaro omaggio a quell'universo espressivo, cui aggiunge una forza melodica in odore di trip hop e puri astrattismi di un sassofono confinato in qualche pianeta lontano.
La title-track arricchisce la formula con un beat pesante, quasi metallico, mentre Spindrift inizia come una sonata romantica dei Black Tape for a Blue Girl. Incredibile il lavoro sulle varie voci, tutte a loro modo capaci di ritagliarsi un ruolo da protagonista: anche qui, Stetson si conferma un maestro nella collocazione dei microfoni e nella cattura degli armonici, combinati un discorso che va persino oltre la grandiosa complessità fonica di un Evan Parker. Capita raramente di imbattersi in sonorità tanto abissali, che paiono voler dar fondo al mondo intero: l'eterno ritorno dello stesso tema alterato da microvariazioni e da combinazioni sempre diverse riesce nel miracolo di incollarti allo stereo per sei minuti abbondanti.
I tredici minuti conclusivi riassumono il meglio delle novità partorite da Stetson: minimalismo, atmosfere in odore di IDM, il sassofono che sconfigge la gravità giocando qui con uno spettro di sonorità più acute. Il pathos cresce in modo quasi tangibile, anche perché le percussioni marziali virano in direzione rock granitico.
Inutile girarci intorno: di peso fra i lavori più complessi e interessanti dell'anno.
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