Dave Holland
Uncharted Territories
Gli anglofoni, con quella concisione propria di chi non ha tempo da perdere, parlano genericamente di a thing of beauty: una bellezza che può essere allo stesso tempo molle ed aspra, estetica e sublime, rassicurante e terrificante. A thing of beauty può essere la Mano de Dios, INLAND EMPIRE, i candidi scogli di Dover fustigati dalle correnti della Manica, un Moonsault di Charlotte Flair o il fungo di un ordigno nucleare. A thing of beauty, senza alcun dubbio, è anche lultimo mastodontico doppio di Dave Holland, un Uncharted Territories che condensa in centotrentuno minuti sei ore di improvvisazione lungo due giorni di inizio maggio 2017. Imbarazza persino fare la cernita dei musicisti allopera: allo storico contrabbasso di Holland si affiancano il non meno mitologico tenore di Evan Parker (centoquarantasei anni in due, a cinque decadi esatte dal primo incontro in Karyōbin dello Spontaneous Music Ensemble, un oceano di storia che ribolle e parla da sé), i tasti neri del genio della Downtown Craig Taborn e, ultime ma affatto ultime, pelli e percussioni del miglior batterista jazz dellultimo decennio, mr. Chad Smith.
Chi se la volesse cavare con poco direbbe che la classe non è acqua, il talento non si compra al mercato del pesce, ogni scarrafone è bello a mamma soja, e chi sè visto sè visto. Qui, però, ci sono di fronte ventitré buone ragioni per rompere la mandibola ai luoghi comuni: un mosaico di eventi musicali, tasselli complessi di un disegno composito, una riserva potenzialmente infinita cui attingere e in cui perdersi, dove scoprire ad ogni passaggio un dettaglio inconsueto, un particolare prima sfuggito. Lo ascolto a corrente alternata da sei mesi, immediatamente a ridosso della sua uscita, e ancora non posso dire che mi sia tutto chiaro, che la decifrazione sia completa. Anzi: più lo si vede da vicino, più si cerca di penetrarne lessenza, più atomizzate e frammentarie si fanno le conclusioni. Un esempio concreto: solamente tre brani sono stati composti a tavolino, prima dellentrata in studio. Due di questi sono firmati dal sempre impeccabile Smith. Sul primo disco, Thought On Earth è per lunghi tratti lasciata allimperscrutabile dialogo di Parker e Taborn, prima che il batterista ne contrappunti le irregolari parabole melodiche con un vigoroso tocco swingato sempre sullorlo della disintegrazione: sul secondo, Unsteady As She Goes gioca di pennellate ambientali (gong, vibrafoni, corde tese) prima di abbozzare unevoluzione free-cameristica tenuta saldamente sotto controllo. Vè poi la gradita ripresa di Q&A, dal vecchio Conference Of The Birds (1972) del bandleader: Parker rimpiazza Braxton con assoluto charme, ma è ancora una volta il tentacolare Taborn a piano e vibrafono ad illuminare di immenso dodecafonico il risultato finale. La morale della favola è che non cè una morale: almeno, non lungo il filo rosso di somiglianze e whodidwhat che si sperava di poter seguire.
Di analogia in analogia. Lultimo disco in studio degli sciaguratamente già dimenticatissimi Anatrofobia, risalente al 2007, si intitolava non senza una certa autoironia Brevi Momenti Di Presenza. Qui, per converso, gli unici momenti brevi che contano sono quelli dassenza: liniziale respirazione circolare di un Parker insolitamente stetsoniano in QW2 (improvvisazione spezzettata ma briosa), le spettrali apparizioni gotiche di Organ Vibes W1 (lepisodio forse più suggestivo del disco, sinistramente zorniano), laccuratamente coltivato minimalismo da ensemble di QW1 (prima dellinesorabile crescendo, che introduce le spazzole di Smith e regala due minuti di incessante, plumbea trama pianistica), gli staccati di fraseggi sulle note sostenute di Tenor Bass W3, una Piano Bass Percussion T1 tra alea, file cards e improvvisi scoppi poliritmici. Lelenco potrebbe andare avanti allinfinito, lambire chicche sparse (il groove micidiale del funk astratto di Bass Percussion T1) e soffermarsi sulle take che hanno richiesto più elaborazione (lincalzante free di QT12, la velenosa elettronica che si intrufola tra i pattern parkeriani e i giocattoli timbrici di Smith in QT13): ma diverrebbe, appunto, un elenco, un esercizio tedioso che a nulla serve, se non ad allungare il brodo.
Se mette per davvero piede su territori inesplorati, questo non lo saprei dire. Lo immagino piuttosto come una variante in note del Dizionario dei Chazari di Milorad Pavić: ognuno ne dà la sua versione e, da qualsiasi parte lo si inizi, la scelta è sempre quella giusta. A thing of beauty, appunto.
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