Prince
Purple Rain
Quando si parla di Roger Nelson, si deve necessariamente tener conto di un fatto: è innamorato di se stesso, è affetto da una grave ed inusitata forma di narcisismo.
Con tutte le ragioni del mondo eh: Roger è uno dei più grandi geni della seconda metà del ‘900, è un artista che ha saputo riassumere decenni di storia della musica nera per proiettarli nel futuro. Purtroppo però, ne è perfettamente consapevole: già, perché un ragazzino che firma come “Dio” la prima lettera scritta a tale Miles Davis, e che sceglie pseudonimi che trasudano umiltà quali “Il Principe” e poi “L’Artista”, evidentemente si sente un fenomeno.
Repetita iuvant: ha ragione. Come potremmo altrimenti definire un personaggio che già a 20 anni pubblica dischi notevoli, fra funk, disco music e pop luccicante, suonando ogni strumento che gli capita a tiro? Un personaggio che dai 24-25 in avanti diventa una delle più grandi star del mondo, capace di far concorrenza sul piano mediatico a gente come Michael Jackson, Madonna e Duran Duran, dimostrando pure, ed al contrario di alcuni fra costoro, di essere un musicista straordinario?
Già, perchè la differenza sta soprattutto lì: Prince non solo è stato ed è una delle più grandi star che abbiano mai illuminato il firmamento del pop, ma è pure un compositore raffinato ed eclettico, uno strumentista eccellente, un interprete unico. Se per MTV Prince dovrà sempre essere accostato a Madonna e compagnia (brutta o bella che sia), per il sottoscritto e molti altri il vero termine di paragone è costituito da Jimi Hendrix, Sly Stone, James Brown, i Funkadelic, Stevie Wonder (tutt’al più, dal Jackson ancora umano ed ispirato dei primi due lavori, se proprio vogliamo), e mettiamoci pure una goliardia di fondo che rimanda a tale Frank Zappa. Prince, al massimo del suo splendore, è una sorta di Zappa nero che si diverte a rileggere il massimo idolo James Brown e la chitarra di Jimi Hendrix in versione patinata, caricando poi tutto con un tocco di futurismo e con una sessualità androgina e disinibita, oltre che con una sensibilità “pop” capace di sbaragliare la concorrenza e con un edonismo 80’s sfacciatissimo (il che gli procurerà non poche antipatie fra certi “puristi”).
“Purple Rain” è il simbolo stesso di questo massimo splendore, un capolavoro di eclettismo, capace di coniugare come pochi altri ricercatezza e facilità, arte e commercio. Ma anche uno fra i più grandi best-seller della musica pop (pubblicato nel 1984, resterà a lungo in vetta a quasi tutte le classifiche), un disco ancora che ancora oggi riesce a scucire con facilità e con una certa frequenza qualche soldo di tasca a moltissimi appassionati. Per la verità, “Purple Rain” è lavoro attribuito a Prince & The Revolution, band composta fra gli altri dai veterani Lisa Coleman, Matt Fink e Bobby Z., oltre che da altri strumentisti di valore come Wendy Melvoin (chitarra) e Brown Mark (basso). Ma ciò non toglie che la sapiente regia sia sempre tutta nelle mani del Principe, il tiranno narciso, l’uomo solo al comando, che lascia agli altri le briciole (giusto “Computer Blue” è scritta a più mani).
Il segreto del successo di quest’opera è abbastanza semplice: si tratta di un disco irresistibile, estremamente easy all’ascolto eppure capace nel tempo di rivelare dettagli nuovi, rimandi inusuali, spunti originali, ritornelli immortali (i famosi “hook”). “Let’s go crazy” è uno scatenato funk-rock appena tinto di psichedelia, che inneggia al divertimento al grido di “liberiamoci”. Non è il pezzo più interessante del disco, in ogni caso: già la successiva “Take me with U”, cantata a due voci dal Principe ed Apollonia, più morbida ed a tratti addirittura folkeggiante, compie un passo in avanti e mostra una scrittura di grande impatto. Con “The Beautiful Ones” sembra, ancora oggi, di essere proiettati nel futuro: per chi scrive, si tratta del classico pezzo che non stanca mai, che a distanza di tantissimi anni dal primo ascolto conserva un fascino assoluto. È una ballata soul-pop prodotta ed arrangiata in maniera sopraffina e futurista, che ruota attorno a brevi incisi melodici calanti costruiti su cinque-sei note, ove Prince sprigiona il proprio sentimentalismo esasperato senza inibizioni. “When Doves Cry” è il singolo che ha lanciato in orbita il disco: è un pezzo sicuramente piacevole, ma personalmente lo trovo meno accattivante ed irresistibile di altre composizioni; anche se per il funk e la musica nera si tratterà di un autentico shock: manca il basso!
Meglio, a mio avviso, la tamarrissma e deformata disco di “I would die for you”, pezzo trascinato da un incessante battito elettro che pare sempre sul punto di esplodere ed invece non lo fa mai, con il Roger capace di regalare un’altra interpretazione tiratissima. La celeberrima title-track è il capolavoro che vale una carriera: quasi nove minuti di soul-blues-pop dilatato e psichedelico, che ammiccano evidentemente ad Hendrix, reso in versione più delicata, oltre che al funk visionario di gente come George Clinton. Il tutto condito da arrangiamenti sontuosi e da una melodia immortale: un crescendo di intensità ed estasi con pochi eguali. Il giusto suggello per un’opera ancora oggi freschissima, godibilissima ed a tratti geniale. Grazie, vanitoso Principe.
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