Colin Stetson
New History Warfare Vol. 3: To See More Light
E' possibile descrivere gli abissi dell'oceano attraverso il suono?
Forse sì: qualche lustro fa ci aveva provato con successo Robert Wyatt, e oggi ci prova (anche se percorrendo strade molto diverse) Colin Stetson. Il concetto che meglio si sposa alla sua ultima opera è quello di profondità: il sassofono pare immergersi fra i fondali e scavare senza pace, completamente dissoluto, disorientato dalle tenebre che lo circondano, ma instancabile nella sua ricerca di nuove sonorità e di timbriche inusuali.
La ferocia espressiva che innerva l'opera ha molti padri, e le peculiarità del sassofono basso in sib sono le stesse che hanno reso grande il disco pubblicato due anni orsono (del resto, non è un caso se si tratta di una trilogia). Solo che qui le sonorità sono diventate ancora più siderali, sembrano voler dar fondo all'intero universo.
Le particolarità che contribuiscono a impreziosire l'opera rispecchiano l'ultimo lavoro, dicevo.
Si tratta della respirazione circolare, per prima cosa. C'è poi un impatto strumentale quasi fisico, che piega le rigide strutture e gli schemi della musica alle esigenze di una mente contorta, agli spasmi di un cuore in allarme.
Naturalmente, anche il jazz libero, il minimalismo (Jon Hassell si materializza in varie tracce) e il rumore: "Hunted" sembra il grido di un dinosauro in gabbia, disintegra ogni parvenza di melodia e di armonia, trasfigura in un disordine controllato il suono in quanto tale, abbozza un dipinto espressionista senza rifinirlo.
La musica sembra fluttuare nel cosmo senza appiglio, quasi si trattasse di coverizzare gli Spring Heel Jack di "Amassed" limando ulteriormente ogni "musicalità".
Neanche Braxton era arrivato a tanto, perché questa concezione radicale perde ogni forma di razionalità (l'ossessione di Anthony per la matematica) e si abbandona al chaos, si disperde fino a diventare chaos. Manca tuttavia l'energia dirompente del free jazz: il suono pare ripiegarsi su sé stesso, non lascia filtrare nulla. Il suono forgia un paesaggio psichico lugubre, arcano, e lentamente degenera in una sorta di baccanale brutalizzato. La cosa paradossale - e bellissima - è che una simile implosione sonora, che vorrebbe massacrare ogni barlume di ordine e di regolarità, finisce per conquistarti perché possiede una tensione di fondo tangibile, perché si traduce in un progetto a suo modo coerente, unitario.
"High Above a Grey Green Sea" si muove sulle stesse coordinate, anche se l'anima si sdoppia: il sassofono gorgheggia solitario mentre la seconda voce, più acuta e vivace, contempla il nulla. "In Mirrors", minimale e delicata come un'occhiata fugace alla propria immagine riflessa, prelude a "Brute", che mette le dissonanze a tempo metal, con tanto di growl (targato, incredibile a dirsi, Bon Iver!). L'utilizzo di 24 microfoni, tutti posizionati in luoghi strategici per catturare un particolare timbro, oppure echi stranianti e sonorità geneticamente alterate, mostra qui tutta la sua importanza.
Lo stesso dicasi per il labirinto senza uscita di "Among the Sef", minimale ma furiosa nel discorso del sassofono, preziosa nei vocalizzi (questa volta, riconoscibili) dal grande cantautore. "To see more light" è la suite più visionaria, e si dipana in un gioco intricatissimo di note sparse, sussurri nevrotici, sinfonie deformi. Lo strumento viene espolorato nella sua dimensione a-musicale, quasi che non si trattasse più di elaborare un discorso costruito da note, pause e armonie, ma di sfibrarsi in una lunga narrazione altamente psicologica, colorata dalla frenesia, asciugata da un vento di follia pungente.
"Who the Waves are roaring for" ci riporta sui fondali e ondeggia senza sosta, accattivante in virtù di un beat appena accennato, prima che Bon Iver provi a disegnare un pezzo da "vero Bon Iver".
Combinare due universi tanto distanti e incompatibili ottenendo un amalgama densa e perfetta. Eccolo qua, il grande mistero della Musica.
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