R Recensione

7/10

Alexander Hawkins & Evan Parker

Leaps in Leicester

Sostengono critici veri e illustri che il britannico Evan Parker, fresco ultra-settantenne (si stenta a crederci, dato che ha pubblicato come leader o co-leader qualcosa come 22 dischi solo nell'ultimo decennio), sia il sassofonista più importante e originale del post-Coltrane.

Almeno, in Europa: Evan già negli anni '70, ai tempi del rivoluzionario e programmatico “The Topography of the Lungs” (un capolavoro che tortura i tuoi timpani, davvero uno studio registrato live sulle possibilità dei nostri polmoni), ha buttato a mare decenni di certezze jazz. Ha deciso in sostanza di fregarsene un po' di tutto, seguendo le orme degli oltraggiosi affermatisi negli anni precedenti, ma spostando ancora più in alto l'asticella, rivelandoci i nuovi, possibili significati del concetto di musica.

Non è stato il solo, naturalmente: altri come lui hanno osato l'inosabile in America (soprattutto a Chicago e poi a New York) e in Germania, ma appunto anche in Gran Bretagna. Solo che nel suo caso persino parlare di free jazz è quasi riduttivo, o comunque fuorviante: Parker e gli altri “futuristi” inglesi sono quasi più a-jazz, o post-jazz, se proprio sentiamo il bisogno di attaccargli in fronte un'etichetta. Il free americano rappresenta lo snodo fondamentale, la pietra angolare di tutte queste ventate rivoluzionarie: ma quando il paesaggio si trasforma radicalmente, quando poi la lezione free è incanalata verso fini diversi (non solo e non tanto "liberatori"), è d'obbligo lasciare da parte gli schemi consolidati.

Parker era e rimane del tutto fuori fuoco anche oggi perché il suo turbinio di riverberi, sonorità radicali, frasi strozzate, e tanto violente da relegare in un angolo chi ancora pretende di separare musica e rumore, è ancora oggetto di studio.

Anche per lo stesso musicista: il flusso costante ma incoerente, sintatticamente sempre "fuori grammatica", capace di sfruttare in modo impressionante il potere degli armonici e l'uso di note di durata brevissima (collegate in catene arzigogolate), è lontano anni luce da ogni concetto tradizionale di musicalità e di piacevolezza (almeno nei momenti più “forti”; “The Snake Decides”, datato 1986, è in tal senso esito estremo e passaggio cruciale della sua carriera: puro rumore astratto che prende forma).

Viste le premesse, posso dire che “Leaps in Leicester” (fresco fresco di pubblicazione) è un bellissimo lavoro un pochino più di maniera, per chi conosce e ha amato il Parker che fu. Ma credo possa risultare un salutare pugno nello stomaco per tutti gli altri.

L'album colpisce per la sfacciata cerebralità, che – come al solito - poco concede in termini di piacevolezza.

Almeno, se si parla di sassofono tenore: la narrazione contorta, ora tanto minimale da farsi silenzio, ora, ma più di rado - come da scuola post-free europea – di maggiore violenta fonica, mette tanta carne al fuoco. Come lo spirito affine Braxton, anche l'inglese risulta sordente: parlare dei singoli brani è quasi superfluo perché ognuno racchiude in sé mille spunti diversi, è quasi una suite/ non-suite che riesce nel consueto miracolo parkeriano di suonare tanto pensosa quanto furiosa. Un concettualismo sfacciato che possiede però qualità fisiche naturali piuttosto forti: questa è musica che scuote, nonostante il suo scopo sia forse quello di paralizzarti.

A riportare un minimo di ordine in mezzo al marasma parkeriano ci pensa il pianista Alexander Hawkins, classe 1981, e classe da vendere: dimenticatevi il classico tastierista che prova a incantarvi a suon di virtuosismi e di citazioni. Hawkins è una sorpresa, per il sottoscritto, in virtù del suo stile calibrato, in punta di piedi, a sua volta sfacciatamente cerebrale, per quanto tendenzialmente più incline a sfruttare le potenzialità della melodia.

Hawkins suona a metà strada fra le geometrie impossibili di Monk e il razionalismo colto e degradato di Cecil Taylor (il cui approccio percussivo e circolare è citato a più riprese, specie nelle frasi ributtate a velocità impossibili, e interrotte - la lezione di Monk - da silenzi che sono parte fondamentale del discorso). Qua a là, si avverte l'eco di Anthony Davis o di Paul Bley, pianisti capaci di convogliare dentro strutture più rigorose e lucide, direi più umane, le idee sovversive del free jazz più radicale.

Parker e Hawkins non si tolgono spazio: intessono una sorta di lungo, intricato dialogo a due voci. L'atmosfera è rarefatta e quasi scarnificata, e conoscendo la cura maniacale con cui Parker cura il suono, non può trattarsi di un caso. Evidentemente, il leader ha evitato appositamente il ricorso alla tavolozza di armonici, ha scelto forme meno ingombranti. Quasi come se un espressionista si dedicasse improvvisamente all'astrattismo e alla metafisica. Ecco, questo è un lavoro quasi metafisico (i 34 minuti del pezzo conclusivo sono in tal senso emblematici, specie per il lungo solo del sax che si ascolta verso il ventottesimo minuto, uno fra i momenti più "violenti").

Intendiamoci: nonostante provi a smussare gli angoli (ogni tanto c'è persino uno spunto melodico riconoscibile), “Leaps in Leicester” rimane un disco per iniziati, o quasi. Ma anche questo fa parte del suo fascino: Parker non ha mai pensato ad altro che non fosse sperimentare le possibilità del suo amico fraterno, mettendosi alla prova in mille ambiti diversi (memorabili e molto più “classici” i suoi interventi nel capolavoro “Amassed” degli Spring Heel Jack). E a noi piace proprio per questo.

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