BADBADNOTGOOD
IV
Running away is easy / Its the leaving thats hard / And loving you was easy / It was you leaving that scarred
Flash: il twang malinconico della chitarra di Leland Whitty. Prospettiva: il disegno di archi che si staglia sullo sfondo. Soggettiva: lesile, spettrale melodia jazzy delle tastiere di Matthew Tavares. Primissimo piano: lentrata in scena dellimperfetta, avvolgente voce soul di Charlotte Day Wilson, giovanissima e canadese come la band che le modella addosso un sontuoso vestito sartoriale, library lasciva e sofisticata del Nuovo Millennio (di Edda dellOrso non ne nascono più, ma pure così il risultato rimane strabiliante). Titoli di coda: un ritornello da Nouvelle Vague che, inaspettatamente, spicca il volo, salta ogni staccionata armonica fin lì costeggiata e va a perdersi in territori retrò-pop. I dischi dei BADBADNOTGOOD si riconoscono subito proprio per la ricorrente presenza di questi momenti di assoluta sospensione, di perfetto estetismo. In Your Eyes decima in una scaletta di undici, a giochi praticamente già fatti è un manifesto di intenti solare: la costituzione di un microuniverso dentro un corpo celeste che costituiva già universo a parte.
IV (che, in verità, è il settimo disco del neo quartetto, il quarto se si escludono i due live e Sour Soul con Ghostface Killah dellanno scorso, il secondo interamente composto da brani originali) è uscito in tutto il mondo venerdì 8 luglio ed è stato annunciato con la speranza che con tutte le notizie orrende di quello che sta succedendo nel mondo [ ] possa dare un po di gioia a chi ne ha bisogno. Lo scarso impatto della musica sulla politica si sarebbe ahinoi manifestato pienamente una settimana dopo, con lattentato di Nizza e il sedicente golpe turco, ma questa è unaltra storia: perché quelli di IV non sono buoni propositi e la missione dei BADBADNOTGOOD non rimane verbo morto su carta. Lappagamento e la felicità che si provano nellascoltare e riascoltare gli ispiratissimi brani del full length sono reali, concretissimi, e pari solo alla profonda consapevolezza, da parte di chi ascolta, di avere di fronte una realtà e non una promessa, un gruppo a suo modo già consegnatosi alla gloria dei turbolenti annali della musica 2.0.
Per misurare il peso mediatico dei BADBADNOTGOOD e la stima artistica loro accordata da colleghi assai più vecchi e scafati basterà un colpo docchio sui numerosi ospiti che intervengono, nel corso della tracklist, a caratterizzare i singoli brani e a creare un sapiente gioco di contrappesi. Della classe 1993 Charlotte Day Wilson il cui recente EP desordio, CDW, conferma tutte le parole al miele spese appena un paio di paragrafi sopra si è già detto. In Hyssop Of Love, ad intervenire è il pimpante Mick Jenkins (classe 1991), in un narcolettico hip hop fra Dälek e Roots, i cui stop&go sono inquadrati da un arrangiamento che sovrappone fanfare sintetiche anni 80 e chitarre slide. Il genietto della consolle KAYTRANADA (classe 1992) trasforma Lavender in una felpata, acidissima synth-wave tracimante di bassi. Sam Herring dei Future Islands possiede il giusto timbro da crooner caldo, profondo, notturno per dare voce alla delicata Time Moves Slow (il fascino discreto delle periferie hopperiane daltri tempi). Infine, naturalmente, il carico da novanta: lottone dinamitardo di sua maestà Colin Stetson che ingaggia un duello allultimo fraseggio con Whitty in una spettacolare Confessions Pt. II, la cui manovra dimpostazione ampi, minimali tocchi cool jazz, ritmiche jazz-hop viene dilacerata da frizioni e contrappunti al limite del free.
È un libro di testo post-moderno sul post-moderno, IV: un saggio bulimico ed omnicomprensivo sulle passioni e sugli amori di quattro ragazzi canadesi, unantologia di jazz-non jazz contemporaneo da tramandare ai posteri. Come nel solo di sax colemaniano (o, per chi ascolta i classici solo attraverso la lente dei propri tempi, washingtoniano) che si inserisce nel vecchio, sgranato Betamax di Speaking Gently e pompa linfa vitale nella grandeur delle sue tastiere stroboscopiche. Come quella sinuosa serpentina di piano elettrico (Ahmad Jamal? Herbie Hancock?) che ricambia il favore sulla variopinta title track, tutta giocata su un interplay bebop classico, ma tremendamente efficace. Come nella melodia minimale e nelle luci soffuse sparse da una Chompys Paradise da blue movies, nei raffinati esotismi di Cashmere (che attualizzano, prima ancora che Dave Brubeck, la lezione del nostro Umiliani) e nei sibilanti effetti electro-space che soffiano sulla distonica cantilena per tastiere, sax e vibrafoni di And That, Too. (un brano concettualmente vicino ai Battles giocattolosi di Mirrored e a quelli krauti di La Di Da Di).
Queste le parole del recensore. A cui si sovrappongono, inevitabilmente, quelle dellappassionato, che giudica, soprattutto, per quello che sentono le sue orecchie. Ed allora, attenzione: questi ragazzi lhanno messa giù davvero pesante. IV è un trionfo di eclettismo, sincerità e passione.
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