Matana Roberts
Coin Coin Chapter Three: River Run Thee
Ecco a voi due pietre miliari (vere, qui l'espressione non la usiamo a sproposito): prima cosa, l'AACM è praticamente la miglior "etichetta" indipendente mai apparsa nel mondo della musica, anche se naturalmente non si tratta di un'etichetta; seconda, Matana Roberts è una gigante della musica contemporanea.
Mi gioco la collezione di dischi free jazz che fra vent'anni parleranno ancora di come lei (o anche un Colin Stetson) abbiano saputo radicalizzare - in una prospettiva sfacciatamente proiettata verso il futuro - l'idea stessa sottesa al concetto di jazz e a tutto ciò che gli gravita attorno.
La Roberts è al quarto disco da leader e non ha sbagliato davvero nulla, mostrando anzi un coraggio e una visione d'insieme proibitivi per quasi tutto il resto del pianeta.
Riassumendo in poche righe, in cinque anni Matana è passata dal free jazz scuola Art Ensemble of Chicago meets Albert Ayler&John Coltrane del debutto al gospel dilatato e incendiario di Coin Coin Chapter Two, passando per il suo capolavoro sommo, quel Coin Coin Chapter One che porta il free jazz a celebrare il matrimonio definitivo con l'estetica post-rock. Il tutto, senza dimenticare la voce stralunata e pungente del blues primordiale, capace di tenere la musica sempre con i piedi per terra, di consolidarne l'impatto fisico.
Ora (sono passati 7 anni dal primo disco) siamo al terzo capitolo di una saga (quella Coin Coin) che, per i sottoscritti, è a suo modo già storia.
Coin Coin Chapter Three: River Run Thee è il lavoro più ambizioso e complesso della Roberts, sino a oggi.
Chapter Three, come molti fra i dischi migliori, non è facile da etichettare.
L'impalcatura jazz crolla, anzi si dissolve nell'acqua, fino a diventare quasi irriconoscibile. Matana riparte dalle impressionanti sfide in solitudine degli anni '60 e '70 (George Lewis, il solito Anthony Braxton, Wadada Leo Smith, Roscoe Mitchell) per compiere un passo ulteriore.
Come i padri, anche lei balla da sola: eppure il suo sound non è mai stato così saturo, corposo, a suo modo ancestrale.
Il terzo capitolo è tanto denso quanto inafferrabile; è arioso come il post-rock più intrepido, eppure si squarcia in passaggi segnati da contrasti drammatici.
La gestualità materica del capitolo primo tende a sfumare, a farsi aria: il jazz incontra il minimalismo e la musica ambient, forse addirittura l'estetica warp-versante oscuro e rumorista (la stralunata A Single Man'O War; oppure All is Written: sfido chiunque a incasellare dentro un "genere", un brano simile, dove sembra di ascoltare i Labradford che rifanno Albert Ayler, o qualcosa del genere); il sassofono diventa suono puro, si fionda sopra una nota per cavarne ogni possibile umore. Le trame diventano ieratiche, stridenti, perse dentro un universo dove il movimento e il tempo sembrano scomparsi nel nulla, e questo vale anche per i pezzi in cui si riconosce, in filigrana, qualche spunto melodico più jazz-oriented (le splendide evoluzioni del sassofono contralto in Dreamers of Dreams).
Altri aspetti nodali: la voce, e anzi le voci della Roberts, diventano uno strumento. Lei declama, parla, oppure si sfibra in blues lacerati che vibrano di una irrequietezza stordente (la performance straodinaria di Say My Name è pura metafisica): la cosa meravigliosa è che tutte queste operazioni le riescono in contemporanea, perché i brani sono costruiti a pannelli, in modo tale da alterare il normale rapporto spazio tempo (l'impressionante immobilismo nasconde in realtà un'infinità di microeventi in movimento spasmodico). Una musica per immagini, quadri di un'esposizione contemporanea, fields recordings (Alan Lomax sarebbe impazzito di gioia), un magnetofono puntato verso l'America rurale, il paesaggio desolato e desolante della segregazione.
Sembra quasi di scorgere, penzoloni, l'ennesimo cadavere di negro linciato, il cui sangue gocciola e riapre le ferite di un popolo oppresso, martoriato, calpestato, eppure vivo, pulsante; la su menzionata All is written sembra provenire da un'altra dimensione, perché è un grido lacerato che evoca il Tim Buckley di Lorca e Starsailor, oppure la Nico di Desertshore, e quindi gli abissi dell'anima, il terrore metafisico.
Uno stream of consciousness sonico, eppure immaginifico: si fanno strada, tra droni musicali ed iterazioni funebri, i discorsi di Malcom X, pianti e grida di bambini, i suoni dei tumulti, delle barricate, non importa sei si tratti di Watts, Harlem o il Mississippi: il tutto è parte della musica e la musica è parte del tutto.
Un disco visionario, a tratti quasi patafisico, espressionista - si ascolti il salmodiare di "Always Say Your Name" con quel sax ieratico, un Anthony Braxton che scioglie le maglie dell'improvvisazione, condensando significato e significante, musica concreta, musica liquida, che sfugge ad ogni classificazione.
Oppure "Nema, Nema, Nema" con quelle tastiere spacey, su un tappeto ambient e di nuovo quel sax che sembra spuntare dal nulla, da una brughiera o da una palude.
Declamatorio, interlocutorio, eppure vivo, presente, troppo vero, troppo presente a se stesso: L'uomo contemporaneo messo di fronte agli errori della sua storia, ai soprusi, alle prevaricazioni. L'uomo che non è più in grado di scorgere l'altro da se', rinchiuso nella sua torre di indifferenza ed incomunicabilità, ove il passato e la consapevolezza della propria storia e dei propri errori sia l'unico mezzo di catarsi, di riappropriazione di se'.
Qui si fa la storia, il gesto immanente, il qui ed ora. Lasciatevi cullare da questo flusso stordente, eppure così suadente, di questo racconto in musica, ne uscirete inebriati, ritemprati. Facciamo nostra una frase letta da qualche parte in merito a Tilt di Scott Walker: dopo averlo ascoltato, il resto sarà puro intrattenimento.
Al prossimo capitolo, ovvero brandello d'anima.
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