R Recensione

7/10

Divus

2

Disperdere un preziosissimo capitale d’esperienza tra le pieghe di un’attività artistica a dir poco bulimica e polimorfica era più che un pericolo concreto, soprattutto dopo la piena ripresa dei lavori in casa Zu (il trittico ambientale “Jhator” – “Mirror Emperor” – “Terminalia Amazonia” tra 2017 e 2019, con il ritorno ufficiale annunciato in autunno), il recente e convincente esordio solista di Luca Mai (“Heavenly Guide”) e la solita onnipresenza del Luciano Lamanna produttore e musicista (Creta, Serpents, Lucifer Analog…), anche a proprio nome (il sottovalutato “Sottrazione” del 2018, sempre per Boring Machines). Invece, seppure un po’ in sordina rispetto a quanto avrebbero meritato, a tre anni di distanza dall’esordio omonimo i Divus sono riusciti a dare continuità alla loro narrativa e hanno composto un sophomore che – per visione prospettica e risultati conseguiti – si pone su tutt’altro livello rispetto ai pur discreti autografi del primo capitolo. È anzi questo, per certi versi, il vero atto fondativo del duo, il loro manifesto artistico più compiuto: poco meno di mezz’ora, ma intenti limpidissimi.

Con la parziale eccezione di “D3”, il brano più lungo della tracklist e quello che conserva più legami formali e funzionali col s/t del 2017 (una lugubre parata scandita da un beat offuscato e catacombale, tra le cui fila s’intravede la rarefatta ragnatela di fraseggi decostruiti per il baritono di Mai), “2” offre all’ascoltatore svariati e comprovati motivi di rinnovato interesse, già a partire dalla doppietta d’apertura “C1” – “C2”. Se nella prima Mai intreccia un reticolato di segmenti minimal-bop tra Morphine e Sons Of Kemet, approfittando degli spazi significanti colonizzati dalla subacquea pulsazione ambient-techno di Lamanna, la seconda costituisce già la prima vera sorpresa del disco, con l’eccellente melodia post-cool del sax ad attorcigliarsi attorno al nulla in un ambiente denuclearizzato. L’altro highlight dell’opera è “D2”, una sfibrata techno-jazz industriale il cui possente nocciolo ritmico sembra rimirare da vicino la lezione degli Autechre di “Incunabula”: un crossover totale, riuscito su ogni livello di composizione, che torna a scorporarsi in favore dell’una o dell’altra componente nelle più brevi “C3” (ossessivi spasmi da gabber assecondati da un baritono contundente) e “D1” (intuizioni stetsoniane che galleggiano, deformate, in un vuoto luminosissimo).

Inaspettata, graditissima sorpresa.

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