Albert Ayler
Spiritual Unity
Per me la musica è soprattutto una questione di immagini: l'associazione mi viene naturale e istintiva (non che creda di essere il solo, sia chiaro: moltissimi ascoltatori riconoscono alla musica questa pecualiare forza evocativa, ovvero la capacità di trasformare la propria immaterialità in qualcosa che possiamo vedere, sentire e toccare).
Parlando di Albert Ayler, la prima immagine che molti hanno intravisto nelle sue sghembe figure geometriche è quella del grido silenzioso (o pianto silenzioso che dir si voglia). Si tratta per la verità di un'associazione tanto nota e diffusa (nonchè favorita dagli stessi titoli utilizzati dall'artista: Far Cry) che non perderò tempo cercando di convicervi di avere a che fare con una mia intuizione: è però vero che raramente il sottoscritto si è ritrovato così a proprio agio con una definzione tanto ossimorica e apparentemente priva di un preciso significato.
Il problema è che la musica di Ayler assomiglia davvero a un grido silenzioso: grido perché così incredibilmente simile alla voce umana, silenzioso perché pare implodere più che spargersi ai quattro venti; perchè pare ripiegarsi su sé stessa, rinchiudersi dentro guscio. Ayler prega con mestizia nascosto sotto un cielo plumbeo, non porta messaggi chiari né univoci.
Il sassofonista tenore dell'Ohio dichiarava di voler infondere nella musica soltanto messaggi di pace e serenità (o di coesione: la ricerca dell"unione spirituale"): riesce però difficile crederlo, perchè l'angoscia (per quanto sempre china e misurata) che pervade i suoi capolavori è quasi tangibile, indubbiamente reale.
Una brutale angoscia silenziosa che ritroviamo anche e soprattutto in Spiritual Unity, gemma assoluta della sua breve ma leggendaria discografia: esperimento free-jazz talmente atipico e stralunato da risultare poco decifrabile anche in un ambito così aleatorio e già di per sé dischiuso a mille possibili letture.
Certo, la lezione di Coleman è ben presente, ma non sia avverte la sua brutale energia. Si avverte anche echi di Coltrane, ma siamo lontanissimi dalla corposità solenne della sua voce, così come dalla sua imprevedibile fantasia melodica. La leggerezza del discorso potrebbe evocare certe cose di Parker, ma anche questo paragone mi pare impoprio, perchè i riferimenti culturali e tecnici distano anni luce.
La verità è che Ayler è un musicista unico: un innovatore decisamente poco amato e compreso, quando non apertamente sbeffeggiato e brutalizzato per l'assoluta originalità del suo discorso sonoro, così distante da certi canoni del jazz; di fatto un musicista estremo, poco decifrabile, in una parola misterioso (così come misteriose furono la sua vita e persino la sua prematura scomparsa).
Ayler è musicista d'avanguardia e al contempo primitivo: nel fraseggio contorto, distorto e dissonante del suo tenore (che in Spiritual Unity è inevitabilmente lo strumento cardine, sebbene ci siano collaboratori di valore come Peacock al basso e Murray alle percussioni), che di fatto cancella il ruolo centrale del beat e dello swing, si avverte l'eco del gospel e del blues rurale, sfumature country aleggiano sopra successioni di note che sembrano indirizzate verso il nulla (ascoltare per credere l'incredibile tema iniziale del capolavoro del disco, la celebre Ghosts - profetica sin dal titolo - che nella scalcagnata introduzione sembra quasi citare il classico "Oh, Suzanna").
Il sax di Ayler guarda al futuro (giusto Coltrane, Mingus, Coleman e pochissimi altri risultano accostabili, sotto questo profilo), eppure è impregnato come nessun altro di storia della musica popolare, anche nella sua gamma e nelle sue dimensioni più lontane del jazz colto (sarà che io avverto il profumo della campagna aperta, della musica country e blues dell'anteguerra, di tutta quella stagione seppellita in pochi anni dal rock'n'roll).
Ghosts, in ogni caso, non è il solo il compendio di tutto ciò, ma è anche un ponte verso il free-jazz più cerebrale e studiato che si improvviserà alcuni anni più tardi dalle parti di Chicago: al contrario di certe astrusità che verrano, tuttavia, la musica di Ayler conserva una dimensione intima e personale quasi toccante, un'intensità viscerale quasi tangibile.
Le stesse considerazioni valgono per la straripante The Wizard, serpente a sonagli surreale, senza capo né coda né un ritmo chiaramente riconoscibile per i nostri poveri timpani. Dirò di più: forse la più grande innovazione di Albert sta proprio qui, nel completo scardinamento del concetto di ritmo come flusso regolare. Ayler, di fatto, porta l'improvvisazione oltre tutti i paletti sino a quel momento riconosciuti, si mette a sondare il vuoto (la sua lezione sarà utile a musicisti anche molto diversi dal nostro, vero Anthony Braxton?).
La seconda variazione di Ghosts, che riannoda e porta allo spasmo il semplicissimo tema iniziale, è degna chiusura di questo UFO musicale che ancora oggi suona strambo, assurdo, non sempre "piacevole" da un punto di vista tradizionale (il disco non è il modo più semplice per approcciarsi al mondo del jazz, in effetti), eppure estatico. Quasi mistico se vissuto e interpretato liberandosi di tutti i preconcetti possibili, se vissuto abbandonandosi al suo contorto fiume di chiaroscuri, dissonanze e grida che fa ampio uso di tutte le possibilità offerte da un sax in termine di suoni (rumori brutali e striduli, una galleria di sovracuti, suono sgrammaticati e poveri).
Non stavamo suonando, ci stavamo ascoltando l'un l'altro: così dissero i musicisti, per rispondere al clamore suscitato da quelle brevi sessioni messe su vinile nella Grande Mela nel Luglio del 1964, in un'epoca di grandi mutamenti di cui Ayler fu fra i maggiori e più sensibili interpreti.
E c'è da credergli: questa non è semplice musica, è un rituale collettivo che da forma alla libertà di espressione più autentica. Vietato vietare diranno qualche anno dopo alcuni esagitati arroccatisi nelle Università parigine, californiane o milanesi: ed ascoltando questo disco, viene da pensare che Ayler ed i suoi avessero già capito tutto alcuni anni prima.
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