John Coltrane
Ascension
"Ascension", fedele al titolo, segna un punto di non ritorno per tutta la musica del '900, perché completa l'opera di decostruzione semantica iniziata da Ornette Coleman cinque-sei anni prima.
Le assonanze con il celebre "Free Jazz" del genio texano sono evidenti e dichiarate (Coltrane, secondo un non meno celebre aneddoto, spedì al collega un telegramma di gratitudine con tanto di trenta dollari), ma qui si riesce a sfondare anche le ultime barriere rimaste a proteggere l'intellegibilità e la stabilità strutturale e armonica della musica: il sottile raziocinio che sorregge l'impalcatura di "Free Jazz" viene demolito a picconate, e con foga inaudita.
L'impresa più impressionante della musica jazz, forse della musica tutta, vede John Coltrane nel ruolo di inedito direttore d'orchestra (e di strumentista chiave), e vanta altri protagonsti importanti: oltre al quartetto del leader, partecipano i tenorsassofonisti Pharoah Sanders e Archie Shepp; il geniale trombettista Freddie Hubbard; gli altosassofonisti John Tchicai e Marion Brown.
L'avaguardia della Grande Mela si raduna per rendere omaggio al suo genio. Anche se Coltrane ha faticato più degli altri ad accettare le concezioni stilistiche brutali della new thing: r'n'b, hard-bop e jazz modale rappresentano da sempre il centro gravitazionale della sua arte, e decidere di buttare a mare anni di armonizzazioni severe, contrappunti rigorosi e scale regolari non è semplice.
I tempi però sono maturi: Coltrane fra i 1964 e il 1965 si avvicina con decisione ai nuovi parametri (de)codificati dai musicisti più oltraggiosi, e ne sposa a modo suo il radicalismo politico, partecipando con devozione al festival della New Black Music.
"Io suono, altri scrivono, altri fanno comizi, ognuno per conto proprio; se alla fine ci ritroviamo tutti dalla stessa parte, vorrà dire che nelle cose essenziali la pensiamo tutti allo stesso modo. E ognuno di noi lo dice come può". Si tratta di affermazioni che non richiedono una particolare analisi: John Coltrane ha deciso dove schierarsi, e la sua determinazione diventa ancor più sanguigna e ferma dopo l'omicidio del fratello Malcom (Febbraio 1965).
"Ascension" riflette le contraddizioni di una fase storica cruciale e le vibrazioni che elettrizzano l'atmosfera, ma rimane figlio anche del profondo senso religioso dell'autore, materalizza una fusion obliqua possibile, anzi concepibile solo dal maestro.
Il lavoro esaspera la nota di follia di "A Love Supreme" - e infatti ne cita a ripetizione brevi frammenti melodici - e la costringe a esplodere.
La nuova consapevolezza negra si canalizza verso la spiritualità, e ne trasfigura i connotati: la messa è finita, ora si celebra un rituale pagano che vuole calamitare tutta la rabbia repressa del ghetto, compattandola dentro un LP alieno.
Il free jazz di Coltrane è musica altamente simbolica: le sonorità sporche e "fuori grammatica" (cito letteralmente Polillo) sono l'equivalente di una raffica di mitra indirizzata al cuore della cultura bianca dominante, al cuore della sua arroganza.
Un segno di rottura brutale, la traduzione in musica dell'Urlo di Ginsberg, solo che qui la posta in gioco è ancora più alta, perché gli strumenti sono animati da una ferocia figlia della disperazione più autentica. Il fondo del barile è vicinissimo anche per gli uomi del jazz: si urla perché non esiste alternativa, si contesta perché ne va della propria sopravvivenza.
"Ascension" è un grido, ma è sopratttto (parole di Tenot) "una delle più pazzesche orge sonore del secolo". Trentotto minuti di libera improvvisazione che spostano sempre più in alto l'asticella messa da Coleman e poi la fanno a pezzi, perché non serve più.
La semplicità disarmante del tema introduttivo è simbolismo puro: John Coltrane recupera la sequenza di note di "Aknowledgement" ("A Love Supreme") sib, reb, mib per codificare la frantumazione dei parametri stilistici della musica bianca, per celebrare il primitivismo dell'Africa che significa anche e soprattutto liberazione da sovrastrutture e imposizioni.
Si tratta dell'unico momento di lucidità, perché dopo le prime (teoriche) battute gli altri musicisti si avventano sulle tre note e le smembrano secondo l'istinto del momento.
Lo spartito brucia a furia di sovracuti e spasmodiche alterazioni dei centri tonali di riferimento. Le scale hanno un vago sapore blues ma il concetto di sviluppo regolare viene rapidamente a sgretolarsi, le modulazioni demoliscono le fragili strutture della semplice melodia di base: se "Free Jazz" viveva ancora di assolo, per quanto geneticamente modificati, "Ascension" straccia la cartina con le coordinate e ti abbandona in mare aperto.
Le improvvisazioni dei singoli protagonisti si alternano a fasi d'insieme che trasfigurano in chiave cubista il concetto di big band, di orchestra jazz, di musica organizzata.
Le singole frasi si spezzano, si contorcono, ora dolorose, ora ubriacanti, ora meravigliosamente (s)composte.
Un ciclo continuo di implosioni ed esplosioni che impedisce di tirare il fiato, e che sfonda le porte di un cratere infernale senza fondo: una colata di fiamme eterne paralizza, costringe a spogliarsi di ogni vaga reminiscenza di ordine, strangola.
I singoli musicisti sono rapiti: Coltrane è paradossalmente il più "lineare", perfettamente a suo agio fra gli incastri della melodia. Sanders sfodera la multifonia (suo marchio di fabbrica) e un sound più belluino e grondante di sangue, Shepp è un uragano di glissati e di veeemenza, giusto Hubbard sembra muoversi in territori un filo più regolari, dentro improvvisazioni che conservano una propria coerenza stilistica più nitida. Marion Brown disseziona la melodia in frammenti brevissimi e ricerca un'enfasi ritmica maggiore.
Il finale riassorbe l'ensemble e lo proietta verso il tema iniziale, per regalarci una breve, illusoria quiete.
Eppure sembra ancora di vivere uno stato febbrile, e di averci capito poco: questa musica si libera da ogni condizionamento e diventa fantasia pura. Fantasia saldamente ancorata alla terra, però, quasi fosse il delirio semi-lucido di un manipolo di schizofrenici.
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