V Video

R Recensione

9/10

Ornette Coleman

The Shape of Jazz to Come

Non voglio dilungarmi: come sanno più o meno tutti coloro che conoscono un minimo la storia della musica, Ornette Coleman è il padre della più grande rivoluzione degli ultimi 50 anni, l’artista free jazz per antonomasia.

Come sanno quasi tutti, poi, Ornette Coleman era e rimane fondamentalmente un personaggio naif, meravigliosamente inconsapevole del proprio genio: tant'è vero che quando ha cominciato a elaborare strane teorie per spiegare a noi comuni mortali l’origine della rivoluzione, non solo ha confezionato banalità, ma il suo sax contralto ha perso le sue qualità magiche, e la musica si è afflosciata, abbandonando mordente e tensione.

Il discorso si è normalizzato, in altri termini.

Sugli albori però vietato fiatare: anche coloro che al tempo (di solito, i musicisti migliori delle ere precedenti, che si vedevano sorpassati di botto da un emerito sconosciuto privo anche solo della metà delle loro qualità tecniche) sputavano sulla rivoluzione, con il trascorrere degli anni hanno dovuto riconoscere quantomeno il ruolo centrale rivestito da Ornette durante quel periodo.

Il free jazz, piaccia o meno, nasce e si definisce soprattutto con lui, nonostante lo stesso texano non sia mai stato veramente in grado di spiegare come e perché: e già questo è un miracolo della musica ipotizzabile solo in America, e anzi fra gli afro-americani, che (al tempo, almeno) non erano schiavi di una concezione delle sette note iper-meditata, concettuale e necessariamente forbita.

Per un professore del conservatorio devi dimostrare conoscenze enciclopediche e abilità tecniche superiori, prima di essere autorizzato dall’Autorità a combinare qualcosa di buono; ma se sei un poveraccio cresciuto in una catapecchia sotto il sole rovente del Texas, di queste esigenze te ne sbatti altamente: la prima cosa che vuoi fare e infilarti fra le labbra il sassofono, guadagnare qualche soldo (se tutto va bene: a Coleman non è riuscito troppo, e se ne rammarica ancora oggi) e provare poi a metterci del tuo.

The Shape of Jazz to Come” è il terzo tassello della sua discografia, come band leader del quartetto dove suonano anche Charlie Haden e Don Cherry (manca il pianoforte: elemento cruciale nel bop in sede di costruzione ritmica), e consacra la svolta.

Il titolo prescelto per la verità rischia di smentire la mia teoria, condivisa da chi conosce gli aspetti tecnici della musica: forse Ornette – pur non sapendosi esprimere in termini teorici – era pienamente conscio della dimensione delle sue idee e del loro effetto dirompente (forse, come accade a noi, gli era sufficiente ascoltarsi), tanto da celebrarsi in titoli tronfi e ampollosi come La forma del jazz che verrà, Qualcosa d’altro!, Cambio del secolo, e infine jazz libero.

La cosa meravigliosa di “The Shape of Jazz to Come”, in ogni caso, sta nel contrasto fra mezzi e risultati, fra intenzioni e obiettivi: la musica è pioneristica eppure rustica, radicale eppure appassionata. Ornette soffia nel suo strumento stentoreo idee radicali, ma ci mette anche l’anima, o se vogliamo il blues con cui deve essere cresciuto (e non voglio essere retorico: il disco si compone di sei straordinari blues, e vi sfido a smentirmi).

L’opera consta di grida veementi a più voci che frantumano le convinzioni radicate senza quasi volerlo (forse lo fanno solo perché è la cosa che riesce meglio al texano): anziché sviluppare in modo regolare gli assolo, Coleman assembla frammenti melodici irregolari e senza direzione, spostando in continuazione il baricentro della musica.

La sua tecnica in realtà è chiaramente debitrice del bop, che non a caso rappresenta lo snodo fondamentale prima della libertà assoluta, ma se ne discosta tanto nel mood (Coleman dimostra una propensione naturale per melodie commoventi, a tratti caricate da un’angoscia “fredda” quasi insostenibile) quanto nell’organizzazione di fondo, che qui viene meno. Gli strumenti intessono trame irregolari, gravide di dissonanze e di suoni sgrammaticati: se le singole melodie possono avere un senso chiaro (quasi elementare), l’insieme risulta invece frastornante e scompigliato, perché privo di un vero centro tonale, e quindi apparentemente “fuori fase”. In tal senso, è cruciale l'assenza del pianoforte e del suo tappeto di ritmi e suoni regolari: Ornette se ne libera del tutto per non incontrare ostacoli.

Non c’è poi alcun ordine prestabilito, sia nell’uso degli accordi che nella sequenza delle improvvisazioni: il regista e il trombettista Don Cherry intervengono quando gli sembra giusto, i volumi crescono e poi si spengono a ripetizione senza un’apparente ragione.

L’esito è contraddittorio: al contempo antiquato (il jazz che riscopre il clima polveroso degli stati del sud, che perde ogni contatto con la teoria costruitaci sopra dagli europei: il ritorno del blues, di una musica primordiale, quasi istintiva) e proiettato nel futuro, verso l’atonalità e il raziocinio innaturale dei futuristi (come Anthony Braxton o Roscoe Mitchell); Coleman non suona ma respira, e fa in modo che il sassofono contralto sia il suono del suo respiro, senza barriere o schemi preordinati da osservare.

I brani di “The Shape of Jazz to Come” hanno un che di meraviglioso perché sono dei miracoli di dinamismo, sono un salto nel vuoto, la rivoluzione copernicana della musica contemporanea; già, perché senza Coleman non solo il jazz e l’avanguardia non sarebbero la stessa cosa, ma anche il nostro amato rock avrebbe deviato di un bel po’ il suo percorso (cosa sarebbero stati i Velvet Underground senza Ornette? Di certo, qualcosa di molto diverso).

Questa musica, inoltre, vuole parlare chiaro, vuole scuotere alle fondamenta (e in tal senso, diversa gente riuscirà poi a farlo meglio di Coleman: basti pensare alle sonorità siderali, quasi trascendenti di Pharoah Sanders o di John Coltrane).

Anche se con il tempo diverrà tanto conservatrice e affettata quanto buona parte di tutto ciò che l’ha preceduta e anche seguita, quando Coleman si chiude in studio con i suoi fedeli e incide “Lonely Woman”, si sente aria di libertà: la sua melodia luttuosa e stridula è fra le cose più grandi che possano capitare nella vostra vita.

Il solo acidulo e snervato di Don Cherry lungo “Eventually” è un altro pezzo da novanta, è la storia che si fa carne e sangue in presa diretta. Il proclama irregolare e zoppicante di “Peace”, poi, è ancora un momento cruciale, perché non sai mai cosa aspettarti: due accordi ascendenti all’unisono, quindi il silenzio, e poi ognuno che va per la propria strada, affastellando passaggi di rottura e brevi incisi più comprensibili, senza peraltro mai sposare ritmiche particolarmente convulse. I brani del lato “b” sono altrettanto frastagliati e imprevedibili, e non è un caso se i vecchi musicisti rimproveravano a Ornette (oltre ai limiti tecnici) proprio l’impossibilità di memorizzare la melodia, la scarsa fruibilità, la nervosa imballabilità.

La rivoluzione si completerà un anno più tardi con “Free Jazz”, vero e proprio manifesto del genere: ma questo jazz che verrà rappresenta già un pericoloso balzo in avanti, l’epifania degli anni ’60, con tutto ciò che questo comporta.

V Voti

Voto degli utenti: 9,3/10 in media su 14 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
B-B-B 9,5/10
gramsci 10/10
Lelling 9,5/10

C Commenti

Ci sono 17 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

FrancescoB, autore, alle 15:48 del 11 settembre 2014 ha scritto:

Povero Ornette, ignorato anche qui!

Forza jazzofili il suo meraviglioso contralto aspetta qualche intervento, mi sembra il minimo per un disco semplicemente cruciale per tutta la musica del '900.

Utente non più registrato alle 20:29 del 11 settembre 2014 ha scritto:

Lo scrivo anche qui: per fortuna che su questo sito ci pensi tu ogni tanto a scrivere di Jazz, altrimenti...

Dr.Paul alle 18:14 del 11 settembre 2014 ha scritto:

visto dal vivo, abbiamo fatto una foto insieme e cd "Something Else!!!!" autografato!! MITO!!! Per me insieme a Coltrane e Davis c'è lui, poi gli altri!

FrancescoB, autore, alle 18:22 del 12 settembre 2014 ha scritto:

Grande Paul! E massima invidia! Nel jazz i giganti sono numerosi ma fino a un certo punto, e Ornette siede sicuramente in prima fila. "Free Jazz" ti piace? Per me si gioca con questo lavoro la palma del migliore nell'ambito della sua discografia. Ah, "Lonely Woman" è blues arcaico che si trasfigura in musica futurista, un pezzo veramente mai visto.

Dr.Paul alle 18:33 del 12 settembre 2014 ha scritto:

"Free Jazz" mi piace ma non è per tutti i momenti...so che tu sei un fanatico del free...anzi del super-free

FrancescoB, autore, alle 18:46 del 12 settembre 2014 ha scritto:

Free-Jazz non è semplicissimo ma è ancora accessibile dai, Ascension mi sembra già più pesantino, senza arrivare a Braxton che non è più manco free, è un genere suo e non esattamente digeribilissimo

Totalblamblam (ha votato 9 questo disco) alle 20:44 del 12 settembre 2014 ha scritto:

Un grande del jazz soprattutto come compositore alla pari di Monk e Mingus per intederci. Coltrane lo “omaggerà” con la collaborazione nel suo the avant guard album , uno dei massimi onori che un musicista potesse ai tempi ricevere. Coleman ha estremizzato il bop portandolo su lidi ancora più impervi e deliranti. Don Cherry suo discepolo porterà il free a diventare organic music dando il via al terzomondismo jazz.

(Mu 1 . Mu2 . Orient. I tre Codona roba che già a 20 anni bisognerebbe avere metabolizzato)

p.s Braxton lo sento più come un intellettuale del free e per ascoltarlo bisogna avere molta pazienza e snobismo.

FrancescoB, autore, alle 10:16 del 13 settembre 2014 ha scritto:

Snobismo direi proprio di no dai, dipende dai gusti. Però pazienza sì, ho recensito "For Alto" ed è stata un'impresa, altri numeri però risultano quasi indigeribili anche per il sottoscritto!

Utente non più registrato alle 14:00 del 13 settembre 2014 ha scritto:

Mi sono ricordato di un tipo che conoscevo di vista al liceo che, credendosela di brutto...si vantava d'essere un amante del Jazz...ma poi gli chiedevo allora conosci questo? conosci quest'altro? Alla fine conosceva solo il dixieland...... :-0

A quando una rece sul meraviglioso "Out to lunch" di Eric Dolphy???!!!...

FrancescoB, autore, alle 14:31 del 13 settembre 2014 ha scritto:

Ci proverò, ma non sarà facile!

Marco_Biasio (ha votato 10 questo disco) alle 14:26 del 22 settembre 2014 ha scritto:

Vabbè.

ThirdEye (ha votato 9 questo disco) alle 19:52 del 27 settembre 2014 ha scritto:

C'è solo da inchinarsi qui...

Paolo Nuzzi (ha votato 9 questo disco) alle 16:48 del 11 giugno 2015 ha scritto:

Se ne va un'altra leggenda, alla veneranda età di 85 anni. R.I.P. Ornette...

Marco_Biasio (ha votato 10 questo disco) alle 20:00 del 11 giugno 2015 ha scritto:

Mondo maledetto di merda!

FrancescoB, autore, alle 21:49 del 11 giugno 2015 ha scritto:

Nella storia della musica esistono un prima e un dopo Ornette Coleman. Una larga parte delle innovazioni formali della seconda metà del '900, non solo in ambito jazz, gli devo molto, a volte moltissimo. Lui ha liberato la musica, le ha aperto nuove prospettive, nuove possibilità di essere. Una sposato blues arcaico e futuro, ha disegnato il futuro.

Utente non più registrat (ha votato 8,5 questo disco) alle 9:08 del 27 gennaio 2020 ha scritto:

Oh, ma che meravigliosa meraviglia quest'album! Come diavolo faceva la gente a "non comprendere" Mr. Coleman ad inizio carriera, questo disco è eccellente e ascoltabilissimo. Dal canto mio, non posso che inchinarmi fino a toccar terra

Utente non più registrat (ha votato 8,5 questo disco) alle 20:52 del 10 giugno 2020 ha scritto:

Beh, non so se qui davvero Coleman abbia azzeccato "la forma del jazz a venire", ma la musica rarefatta di quest'opera affascina oggi come allora. Ma poi, vogliamo parlare di Cos'è Cherry in questo disco? Tutto sommato, non esattamente perfetto ma comunque imprescindibile.