Ornette Coleman
The Shape of Jazz to Come
Non voglio dilungarmi: come sanno più o meno tutti coloro che conoscono un minimo la storia della musica, Ornette Coleman è il padre della più grande rivoluzione degli ultimi 50 anni, lartista free jazz per antonomasia.
Come sanno quasi tutti, poi, Ornette Coleman era e rimane fondamentalmente un personaggio naif, meravigliosamente inconsapevole del proprio genio: tant'è vero che quando ha cominciato a elaborare strane teorie per spiegare a noi comuni mortali lorigine della rivoluzione, non solo ha confezionato banalità, ma il suo sax contralto ha perso le sue qualità magiche, e la musica si è afflosciata, abbandonando mordente e tensione.
Il discorso si è normalizzato, in altri termini.
Sugli albori però vietato fiatare: anche coloro che al tempo (di solito, i musicisti migliori delle ere precedenti, che si vedevano sorpassati di botto da un emerito sconosciuto privo anche solo della metà delle loro qualità tecniche) sputavano sulla rivoluzione, con il trascorrere degli anni hanno dovuto riconoscere quantomeno il ruolo centrale rivestito da Ornette durante quel periodo.
Il free jazz, piaccia o meno, nasce e si definisce soprattutto con lui, nonostante lo stesso texano non sia mai stato veramente in grado di spiegare come e perché: e già questo è un miracolo della musica ipotizzabile solo in America, e anzi fra gli afro-americani, che (al tempo, almeno) non erano schiavi di una concezione delle sette note iper-meditata, concettuale e necessariamente forbita.
Per un professore del conservatorio devi dimostrare conoscenze enciclopediche e abilità tecniche superiori, prima di essere autorizzato dallAutorità a combinare qualcosa di buono; ma se sei un poveraccio cresciuto in una catapecchia sotto il sole rovente del Texas, di queste esigenze te ne sbatti altamente: la prima cosa che vuoi fare e infilarti fra le labbra il sassofono, guadagnare qualche soldo (se tutto va bene: a Coleman non è riuscito troppo, e se ne rammarica ancora oggi) e provare poi a metterci del tuo.
The Shape of Jazz to Come è il terzo tassello della sua discografia, come band leader del quartetto dove suonano anche Charlie Haden e Don Cherry (manca il pianoforte: elemento cruciale nel bop in sede di costruzione ritmica), e consacra la svolta.
Il titolo prescelto per la verità rischia di smentire la mia teoria, condivisa da chi conosce gli aspetti tecnici della musica: forse Ornette pur non sapendosi esprimere in termini teorici era pienamente conscio della dimensione delle sue idee e del loro effetto dirompente (forse, come accade a noi, gli era sufficiente ascoltarsi), tanto da celebrarsi in titoli tronfi e ampollosi come La forma del jazz che verrà, Qualcosa daltro!, Cambio del secolo, e infine jazz libero.
La cosa meravigliosa di The Shape of Jazz to Come, in ogni caso, sta nel contrasto fra mezzi e risultati, fra intenzioni e obiettivi: la musica è pioneristica eppure rustica, radicale eppure appassionata. Ornette soffia nel suo strumento stentoreo idee radicali, ma ci mette anche lanima, o se vogliamo il blues con cui deve essere cresciuto (e non voglio essere retorico: il disco si compone di sei straordinari blues, e vi sfido a smentirmi).
Lopera consta di grida veementi a più voci che frantumano le convinzioni radicate senza quasi volerlo (forse lo fanno solo perché è la cosa che riesce meglio al texano): anziché sviluppare in modo regolare gli assolo, Coleman assembla frammenti melodici irregolari e senza direzione, spostando in continuazione il baricentro della musica.
La sua tecnica in realtà è chiaramente debitrice del bop, che non a caso rappresenta lo snodo fondamentale prima della libertà assoluta, ma se ne discosta tanto nel mood (Coleman dimostra una propensione naturale per melodie commoventi, a tratti caricate da unangoscia fredda quasi insostenibile) quanto nellorganizzazione di fondo, che qui viene meno. Gli strumenti intessono trame irregolari, gravide di dissonanze e di suoni sgrammaticati: se le singole melodie possono avere un senso chiaro (quasi elementare), linsieme risulta invece frastornante e scompigliato, perché privo di un vero centro tonale, e quindi apparentemente fuori fase. In tal senso, è cruciale l'assenza del pianoforte e del suo tappeto di ritmi e suoni regolari: Ornette se ne libera del tutto per non incontrare ostacoli.
Non cè poi alcun ordine prestabilito, sia nelluso degli accordi che nella sequenza delle improvvisazioni: il regista e il trombettista Don Cherry intervengono quando gli sembra giusto, i volumi crescono e poi si spengono a ripetizione senza unapparente ragione.
Lesito è contraddittorio: al contempo antiquato (il jazz che riscopre il clima polveroso degli stati del sud, che perde ogni contatto con la teoria costruitaci sopra dagli europei: il ritorno del blues, di una musica primordiale, quasi istintiva) e proiettato nel futuro, verso latonalità e il raziocinio innaturale dei futuristi (come Anthony Braxton o Roscoe Mitchell); Coleman non suona ma respira, e fa in modo che il sassofono contralto sia il suono del suo respiro, senza barriere o schemi preordinati da osservare.
I brani di The Shape of Jazz to Come hanno un che di meraviglioso perché sono dei miracoli di dinamismo, sono un salto nel vuoto, la rivoluzione copernicana della musica contemporanea; già, perché senza Coleman non solo il jazz e lavanguardia non sarebbero la stessa cosa, ma anche il nostro amato rock avrebbe deviato di un bel po il suo percorso (cosa sarebbero stati i Velvet Underground senza Ornette? Di certo, qualcosa di molto diverso).
Questa musica, inoltre, vuole parlare chiaro, vuole scuotere alle fondamenta (e in tal senso, diversa gente riuscirà poi a farlo meglio di Coleman: basti pensare alle sonorità siderali, quasi trascendenti di Pharoah Sanders o di John Coltrane).
Anche se con il tempo diverrà tanto conservatrice e affettata quanto buona parte di tutto ciò che lha preceduta e anche seguita, quando Coleman si chiude in studio con i suoi fedeli e incide Lonely Woman, si sente aria di libertà: la sua melodia luttuosa e stridula è fra le cose più grandi che possano capitare nella vostra vita.
Il solo acidulo e snervato di Don Cherry lungo Eventually è un altro pezzo da novanta, è la storia che si fa carne e sangue in presa diretta. Il proclama irregolare e zoppicante di Peace, poi, è ancora un momento cruciale, perché non sai mai cosa aspettarti: due accordi ascendenti allunisono, quindi il silenzio, e poi ognuno che va per la propria strada, affastellando passaggi di rottura e brevi incisi più comprensibili, senza peraltro mai sposare ritmiche particolarmente convulse. I brani del lato b sono altrettanto frastagliati e imprevedibili, e non è un caso se i vecchi musicisti rimproveravano a Ornette (oltre ai limiti tecnici) proprio limpossibilità di memorizzare la melodia, la scarsa fruibilità, la nervosa imballabilità.
La rivoluzione si completerà un anno più tardi con Free Jazz, vero e proprio manifesto del genere: ma questo jazz che verrà rappresenta già un pericoloso balzo in avanti, lepifania degli anni 60, con tutto ciò che questo comporta.
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