Charlie Haden
Liberation Music Orchestra
LAjax dei primi anni 70 era una squadra in sintonia con tempi euforici e rivoluzionari: amalgamava lestro individuale e le esigenze del collettivo, lasciando di stucco spettatori, appassionati e critici con un calcio fluido, anarcoide, in costante movimento.
La Liberation Music Orchestra è un po lAjax della musica jazz, perché innesta il superbo talento dei suoi solisti dentro schematismi da big band, senza per questo risultare castrante o innaturale.
Entrambe le esperienze sono figlie del 68: predicano labbattimento delle barriere, la contestazione del concetto di autorità, dischiudono nuove possibilità.
Nel caso dellOrchestra, poi, la rivoluzione assume connotati marcatamente politici, da new-left antagonista, senza tuttavia dedicarsi in modo diretto, perlomeno all'attualità (il Vietnam).
Come lOrwell di Omaggio alla Catalogna, Charlie Haden e Carla Bley (che sono un po i Johan Cruijff e Johan Neeskens della situazione, per restare in metafora sportiva) allacciano un rapporto stretto con il folklore ispanico, andaluso e non solo, per narrare le gesta della guerra civile spagnola, parteggiando naturalmente per le enclave di rivoluzionari disseminate fra Barcellona, Paesi Baschi, Andalusia.
I brani della tradizione iberica si alternano con altre antiwar songs di varia origine: Song of the United Front di Brecht, musicata da Hanns Eisler (qui riproposta senza il testo originario, sostituito da un commovente solo di piano di Carla Bley), War Orphans di Ornette Coleman, e poi linno pacifista dellAmerica Nera (We Shall Overcome). Naturalmente, non mancano composizioni originali, firmate dalle due menti del progetto.
Il risultato è uno fra i dischi più commoventi e coinvolgenti dellera, uno degli esiti più alti del free jazz in termini di sapore, di poesia: illustri critici hanno definito questo lavoro rustico e appassionato, e io mi trovo sostanzialmente daccordo.
Poco importa che il disco sia meno rivoluzionario di astrusi esperimenti coevi, che varcano le barriere del free per ideare un linguaggio ibrido, totalmente improvvisato, che sfuma nellavanguardia. Perché lopera guadagna in termini di impatto emotivo e di tenuta complessiva quello che perde in coraggio sperimentale.
La Liberation Music Orchestra è lAjax per come combina genio individuale e architettura collettiva, dicevo, e in effetti basta un assaggio dei primi due brani (The Introduction, che porta la firma di Carla Bley, e Song of the United Front) per farsene unidea: Haden massaggia e accarezza il basso con indicibile dolcezza melodica, gli strumenti a fiato rivisitano una melodia limpida, dal sapore epico, lasciando intravedere il loro superiore talento strumentale (al sax tenore Gato Barbieri suona con unenfasi purificata e ancestrale, caricata da un pathos fragilissimo; al sax contralto Dewey Redman è cristallino e lucidissimo, alla cornetta Don Cherry mette mano al suo linguaggio ruvido e acrobatico, irrobustendo la resa collettiva).
I disco prende definitivamente corpo con i 21 minuti del successivo medley (El Quinto Regimento, Los Quatros Generales, Viva la Quince Brigada: tutte canzoni popolari risalenti ai tempi della guerra civile iberica), dove il genio architettonico di Carla Bley, che scrive tutti gli arrangiamenti, mostra la sua lucidità futurista.
Le chitarre assumono un ruolo centrale, rivisitando scale - naturalmente - dal sapore latino e ricamandoci brevi, brillanti solo. Ma limpatto collettivo è da big band, perché la Bley combina fra loro ottoni e legni torridi (trombone, corno francese, flauto, tromba, cornetta, percussioni varie che regalano una ricchezza in grado di sfiorare la poliritmia) in un campo di colori vivido, eppure lievemente impolverato, malinconico come lAndalusia cantata da Garcìa Lorca.
Haden (per chi non lo sapesse, reduce dal trio di Albert Ayler) domina il lungo intermezzo, con un basso gentile ma quasi carnale: probabilmente Charlie non possiede le capacità virtuose di un Charles Mingus, ma infonde nei suoi brani unumanità che va oltre il talento musicale, spalancando le porte di un mondo che si nutre di passione e intelligenza, più che di tecnica.
La seconda parte del medley è un rituale magico dove la band scrive il suo Manifesto del Partito: prima ottoni e legni roventi espongono allunisono il tema de Los Quatros Generales, quindi lentamente deflagra unaria liberamente improvvisata, dove la ricchezza policromatica del sound conta più della sua compattezza. I solisti si muovono insieme, eppure conservano integra la propria identità: collettivo ed estro individuale, ancora una volta, vengono messi daccordo.
Vive La Quince Brigada è il capolavoro di Gato Barbieri, che con il sassofono infiamma il tema assolato e sofferto da guerrillero, dallalto di unispirazione quasi divina, che ributta scale e accordi siderali, quasi violenti, che sembrano aprire il cielo in due. La Bley conferma il suo intuito e la sua visione dinsieme, innestando canti militareschi e sgonfiando la tensione per far ritorno sui suoi passi nei momenti più opportuni, giusto un momento prima del big bang.
In sostanza, questo brano innesta il linguaggio furibondo e anti-melodico del free-jazz dentro strutture tradizionali, magari impostati su un tempo da marcia (2/4), per ricavarne un sound magmatico e turbolento.
The Ending of the First Side non è meno accattivante: due minuti che sono un luttuoso proclama collettivo, questa volta meno disunito e più fedele al tema di base.
Song For Che omaggia unaltra guerra contro legemonia, e porta la firma del band leader: un meraviglioso solo di basso rimastica la celeberrima Hasta Siempre di Carlos Puebla per nove minuti. La melodia è sporadicamente colorata da flauto e strumenti esotici, prima che irrompa il sassofono di Barbieri a fare terra bruciata, con la sua energia mistica, quasi coltraniana, giocata sui sovracuti e sui continui strappi- accelerazioni impressi al tema di base. Quando si aggiungono Don Cherry e Redman, si è di nuovo catapultati nel bel mezzo di una suite free form, che però strizza sempre locchio alla melodia che la ispira.
War Orphans è micidiale: la stramba invenzione di Coleman si vede abbandonata dallimpalcatura che la sorregge. Il clima è cupamente malinconico, quasi insopportabilmente atroce. Un brano meraviglioso, lanello di congiunzione definitivo fra lestetica free forgiata da Ornette e la miracolosa policromia degli arrangiamenti di Carla Bley (al piano nella dolcissima introduzione), vero e proprio deus ex machina dellavant jazz orchestrale che verrà.
La conclusiva We Shall Overcome chiude il cerchio dei canti beatamente rivoluzionari: e la cosa fantastica e che il grido corale degli strumenti a fiato soffia nel celebre, trionfale tema una nota magica e dissonante, la quintessenza della musica libera.
Più o meno è proprio questa la sensazione che mi dà l'Orchestra: la sua arte è libertà centrata e immaginifica, il canto magico del Nuovo Mondo.
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