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8,5/10

John Zorn

FilmWorks VII: Cynical Hysterie Hour

John Zorn.

È difficile, eh? Molto. Basterebbe questo nome per chiudere la recensione, basterebbero queste due parole per far comparire rispetto e profonda riverenza sul volto di chiunque, anche del più sfacciato ed arrogante. Ma non si può iniziare e finire così: bisogna per forza andare al nocciolo della questione, approfondirlo, sbrogliare la matassa e, perché no, tentare di spiegare per l’ennesima volta chi è quest’uomo e perché risulta fondamentale per l’evoluzione di tutta la musica (e sottolineo tutta) dei secoli XX e XXI.

Bene, John Zorn è uno di quelli che, in gergo comune, vengono definiti “geni”. E qui non si parla di un genio, ricco ed immaginifico quanto volete, ma limitato alla propria sfera d’osservazione: Zorn è un genio purissimo, inattaccabile, a 360°. Vediamo un po’ di approfondire il discorso.

Nato e sviluppatosi come artista di rottura, sulle orme delle avanguardie dei Seventies, sin dall’anno del suo debutto – il 1972 –  ha cambiato per sempre le sorti della musica. In trentacinque anni di carriera, fra progetti solisti, progetti paralleli, collaborazioni esterne, comparsate varie, produzioni autonome, consigli e contatti, ha inciso qualcosa come più di trecento dischi. Quello che in realtà spaventa non è la quantità inenarrabile e l’assurda prolificità del suo estro (tutt’oggi, a cinquantacinque anni, Zorn produce più o meno sette/otto dischi all’anno), ma la straordinaria qualità di almeno il 90% delle sue produzioni, che risulta sempre eccezionale, e fa del musicista un vero e proprio oggetto di mistero per i suoi colleghi (non si riesce effettivamente a capire da dove tragga tutta quest’ispirazione e tutto questo acume).

In cosa consiste la proposta musicale di John Zorn? Impossibile, e fin troppo pretestuoso, cercare di rispondere: il sassofonista ha toccato, esplorato e reinterpretato uno sterminato numero di generi musicali, spesso completamente opposti fra di loro. Dal jazz più consono – per quanto possibile –, al folk, al be-bop, alla classica, all’ambient, all’hard rock, all’hardcore, al thrash metal, al (!) grindcore, al rockabilly, per finire con country, punk rock, samba, musica etnica, new age, psichedelia, klezmer e tantissimi altri ancora.

Il lavoro principale di Zorn è sempre stato quello di prendere una composizione, smembrarla in mille pezzi, eliminare qualsiasi collante che la univa e poi rimontarla, secondo un gusto personale, infarcendola di mille citazioni e spunti, fino ad ingigantirla e renderla irriconoscibile. Ricordiamo ad esempio la rilettura di Morricone in “The Big Gundown” del 1985 (che incontrò la personale, smisurata riconoscenza del compositore italiano, che la definì, senza mezzi termini, la migliore di tutte quelle mai realizzate): esultiamo ancora nel ripescaggio dei grandissimi Naked City, il supergruppo fondato da Zorn attorno alla fine degli anni ’80 (con nomi del calibro di Bill Frisell, Fred Frith e Yamatsuka Eye), per il quale si rese necessaria la coniazione di un nuovo genere musicale (il cosiddetto jazzcore, riconosciuto come punto d’incontro tra free jazz, avanguardia e grindcore); sussultiamo nel risentire capolavori come “Kristallnacht” del 1992 (un concept album interamente costruito sulla tragica Notte dei Cristalli, assolutamente da avere e da ascoltare) o la straordinaria “Masada”, forse il punto più alto della sua carriera, un canzoniere di oltre duecento pezzi sulla riscoperta delle proprie radici ebraiche, fra klezmer e avanguardia. Aggiungiamo pure che il nostro Zorn lavora sempre con musicisti di fama mondiale (il chitarrista Marc Ribot, il percussionista Cyro Baptista, il poliedrico Mike Patton, con il quale ha inciso la recente trilogia che comprende il favoloso “Six Litanies For Heliogabalus” del 2007) e che la sua personalissima etichetta, la Tzadik, ha alle spalle un catalogo in costante arricchimento. Ora riuscite finalmente a capire le dimensioni colossali del personaggio.

Assolutamente rilevante anche l’influenza che Zorn ha da decenni nel campo delle soundtracks: il sassofonista, infatti, quando non è impegnato con progetti solisti o estemporanee collaborazioni, si prodiga nella scrittura e nella composizione di colonne sonore per film di nicchia o, comunque, di scarsa diffusione mondiale. Anche in questi territori, i risultati che si raggiungono sono vertiginosamente alti, grazie all’infinita malleabilità musicale del soggetto in questione e dei suoi illustrissimi ospiti che, puntualmente, lo aiutano e lo sostengono. E questo accade, ormai, da diciotto volumi.

Conclusasi questa lunga presentazione, necessaria ai fini del giudizio finale, mi accingerò ora a parlarvi di questo settimo capitolo dei FilmWorks (le colonne sonore sopraccitate, per l’appunto), meno noto degli altri solo per la sua scarsa reperibilità, e non per questo da trascurare. “Cynical Hysterie Hour” nasce ufficialmente come commento musicale ad una serie di anime giapponesi, eppure la lista delle compresenze che affollano lo studio di registrazione è quantomeno lunga e pregevole (ancora!): Bill Frisell, Marc Ribot, Cyro Baptista, Wayne Horvitz e il chitarrista punk Robert Quine sono solo alcune delle collaborazioni che John Zorn stringe per questo suo nuovo lavoro. Il risultato è davvero strabiliante: dalla session finale escono ben ventitré canzoni, di cui una sola dalla durata regolare (i tre minuti e mezzo di “Punk Rebel (Tsunta’s Theme)”), per un totale di circa venticinque minuti. I puristi potrebbero già storcere il naso e affrettarsi a rivolgere la loro attenzione da un’altra parte, ma si perderebbero una grandissima occasione. Qui, infatti, la durata non conta: al contrario di quanto ci si aspetterebbe, non sono presenti riempitivi, perché i pezzi sono tutti compatti e concentrati, impossibili da scindere singolarmente.

Come suona “Cynical Hysterie Hour”? Aspettatevi ancora una volta un qualcosa di inusuale: questa è una rilettura dei Naked City al contempo fanciullesca (le risate sguaiate e i trilli di “Walk To Park”, le filastrocche fischiettate di “Abacus Waltz”, i girotondi di “End Time”) e acida, come filtrata da uno strato di mescalina. Improvvisi tonfi interrompono atmosfere distese e rilassate, urla e stridii deturpano innocenti distese elettroniche, chitarre punk ultra distorte irrompono a forza su arpeggiati morbidi e delicati, quasi giocosi. Ma il tutto è così spezzettato e repentino da ricondurre forzatamente il pensiero all’originario scopo, ovvero quello di musicare un cartone animato. I suoni, infatti, sono così strampalati ed esagerati che sembrano interpretati proprio da fumetti in carne ed ossa. Detto così sembrerà alquanto strano, ma fidatevi: provare per credere.

È impossibile tentare un track-by-track, o anche una descrizione sommaria: l’unica soluzione è quella di dedicare meno di mezz’ora della vostra esistenza a questo settimo FilmWork. E se alla fine del viaggio vi sentirete storditi, non preoccupatevi: è normale. I capolavori stanno anche in questo. E quel volpone di Zorn, non ne sbaglia neanche una. Mai.

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Alessandro Pascale alle 1:06 del 14 gennaio 2008 ha scritto:

oh giuro che mi hai fatto venire voglia di andare ad ascoltarmi tutti sti 300 dischi di Zorn!!!

Poi però ricordo che l'unica cosa che ho ascoltato anni fa (ero ancora acerbo vabbè) non l'avevo minimamente capito. Anzi hai detto bene: mi aveva lasciato stordito.

Sicurametne è un artista da recuperare. Il grosso problema è: da dove partire?

Lezabeth Scott alle 16:03 del 14 gennaio 2008 ha scritto:

Schegge di genio! Abrasivo, fiondante, vertiginoso!

Marco_Biasio, autore, alle 17:32 del 14 gennaio 2008 ha scritto:

Wow, già due commenti. Contento di avervi incuriositi, vi ringrazio. Alessandro, fare una classifica dei lavori migliori di Zorn, per quanto mi riguarda, è impossibile. Non ce n'è uno inferiore all'altro, sono tutti capolavori a parte che si dovrebbero ascoltare. Io ti consiglio comunque "Kristallnacht", che è veramente da pelle d'oca, e la Masada, che è un compendio di quanto più bello la musica possa offrire negli ultimi due secoli. Almeno come punto di partenza. Ma ascoltati anche questo FilmWork, perchè testimonia bene a che livelli può arrivare la sperimentazione in un compositore che, lo ricordo, nasce come jazz. Ah, dimenticavo: il progetto parallelo più importante di John Zorn, i Naked City, beh, lì è obbligatoria tutta la discografia, in particolar modo "Grand Guignol" (da me recensito, male, anche un po' di tempo fa) e "Absinthe" (che è un mattone ambient-letterario coltissimo e pesantissimo, ma meritevole, quando uno lo riesce finalmente a capire).