Faust'O
Suicidio
La prima crepa l'aveva aperta qualche anno prima (eufemismo) Luigi Tenco, forte del suo sguardo intenso e della sua seriosa malinconia.
L'aveva aperto dicendo cose come Mi sono innamorato di te/ perché non avevo niente da fare.
L'idillio eterno, l'amore dipinto in termini rassicuranti, se non utopici (lasciarsi sembrava proprio la peggiore delle tragedie possibili), la dolce melodia cantata a pieni polmoni: tutto spazzato via in due versi.
Nella sostanza Tenco, pur essendo un cantautore italiano sotto ogni punto di vista, fu forse anche il primo a divincolarsi dall'ingombrante archetipo di Claudio Villa & C.
Seguiranno gli anni '70, prostrati verso impegno politico, poesia conflittuale e patate bollenti.
L'Italia, a modo suo, scopre la modernità. Naturalmente, non è necessario avere i pugni in tasca, per risultare al passo con i tempi: Lucio Battisti certo non percorre le vie della contestazione, ma resta il più visionario in termini di scrittura, composizione e coraggio.
A fine anni '70, secondo l'adagio dominante, finisce un po' tutto. Lucio si ritira verso mondi sempre più lontani e insoliti, Battiato alza la voce del padrone e si butta sulle classifiche, i grandi accusatori del decennio appaiono tutti, e improvvisamente, come dei reduci. Soltanto i più grandi sono capaci di sopravvivere e di reinventarsi, ma un'intera epopea viene chiaramente e repentinamente messa sul letto di morte.
L'adagio dominante però, anche in questo caso, sbaglia un po' mira.
A fine anni '70 la gioventù, a dispetto della rapida eclissi che oscura l'euforia degli anni d'oro, trova infatti nuove voci in grado di esprimere il dissenso. Cantautori fuori dalle righe, più che sopra le righe.
Poeti che non cercano più un movimento, che non si fanno portavoce di altro se non del proprio ego tormentato. Istronici e maledetti de noantri, mi verrebbe da dire. Ma con il quid che può differenziali dall'orda di autori mediocri che li insegue.
Un certo Alberto Fortis, voce acuta e impettita, pianoforte raffinato, si mette a sputare rabbia contro Vincenzo e pure contro tutti i romani. Roba tanto forte quanto forzatamente crudele e appunto fuori dalle righe (Vincenzo io ti ammazzerò/ Sei troppo stupido per vivere; o anche E vi odio a voi romani/ Io vi odio tutti quanti/ Brutta banda di ruffiani ed intriganti).
Nel contempo, un certo Fausto Rossi va persino oltre. In ogni senso possibile. Più che crudele, risulta disturbante. Roba da far impallidire John Lydon o Mark E. Smith (memorabili in tal senso le sue poche apparizioni in tv al Festivalbar).
Fausto Rossi, cresciuto in una classica famiglia disfunzionale della Milano bene, si sceglie lo pseudonimo di Faust'O, si innamora del rock decadente (Roxy Music, David Bowie, tutta la new-wave britannica più minimale e oscura, il suo uso contorto e inquieto dei sintetizzatori: la copertina da dandy è un chiaro indizio delle fonti di ispirazione) e delle sonorità cupe, dense e cavernose del rock gotico.
Poi ributta alcuni fra i versi più geniali, sbilenchi e dissacranti di sempre.
Faust'O non rispetta più nulla e nessuno; canta anche gli orrori degli ultimi, ma senza più un briciolo di denuncia (esplicita, quantomeno).
Suicidio è la sua opera prima, vede la luce nel 1978, in piena bufera wave. Getto subito la maschera: per quanto sia zavorrato da alcune ingenuità compositive, e prodotto in modo un po' amatoriale, Suicidio per chi scrive è un pezzo di storia.
A tratti incompiuto, caotico, sospinto da un'urgenza espressiva che fa piazza pulita di tutto e di tutti, che impedisce all'alienazione di coaugularsi in una forma compiuta.
Ma anche vivo e brulicante di idee (anche musicali) come pochissimi altri dischi del tempo. Iconoclasta e ironico in modo sprezzante, ma anche straziato. La fotografia di un'epoca grigia (gli anni di piombo), che non appoggia apertamente nessun '77, ponendosi in posizione critica e defilata.
Dopo la diabolica Intro (il telefono che suona, il pianto di un bambino, la risata da psicopatico, le tastiere che pulsano e il basso che spruzza disco music da tutti i pori), ecco uno fra i capisaldi della produzione del cantautore perverso, ovvero la traccia che dà il titolo all'album.
Tastiere in odore berlinese (ma anche virate funk), il piatto della batteria che rintocca piano, Faust'O che sembra un cantante glam in piena crisi di panico.
L'aria malsana dell'epoca lo infastidisce, perché non ci sono più rivoluzioni da fomentare: Non aprire la finiestra/ Non ho voglia di sentire/ Quello che hanno da dire.
Ma non ci sono neppure vere alternative Sento/ Tutto quello che mi gira intorno è noia.
E allora la soluzione finale la suggerisce il titolo. Senza disperazione né struggenti parole d'addio, però: Io sapevo della morte/ Ora guarda quei cretini/ Muoiono in un modo molto strano/ Potrei divertimi anch'io!.
Il raggelante finale del brano (Penso che valga la pena di andare) definisce la cifra stilistica dell'album: niente compromessi. Faust'O trasforma non solo la propria realtà, ma metaforicamente - l'umanità intera nel bersaglio dei suoi strali al veleno, tanto furibondi quanto divertiti ed eccentrici.
Godi è forse il pezzo più pesante, dal punto di vista lirico: Ma non farti mai vedere/ Dietro i banchi di una chiesa/ mentre ti masturbi in allegria...Godi/ Però di nascosto/ Nel cesso nel bosco/ Nell'ultimo posto in cui Dio ti vedrà.
Il cattolico Faust'O esibisce il suo terrore per il sesso e per il peccato, da cui si sente oppresso (Dalla gabbia puoi uscire se ti va/ Ma soltanto senza la verginità), e al contempo sputa sul perbenismo della sua chiesa, bestemmiandola (metaforicamente) alla luce del sole.
Le ballate decadenti, di scuola Roxy-Bowiana ma con un tocco di raggelante humour nero, sono il cuore del disco: Piccolo Lord, una semplice sonata al pianoforte, fotografa il microcosmo piccolo-borghese dell'autore e i suoi studi pianistici; l'arrancante Bastardi, in odore di post-punk (il basso è già dark), confeziona un'altra arringa al vetriolo (vigliacchi come rasoi), e inveisce contro nemici senza volto e senza testa, disumanizzati (siamo slot-machines).
Il mio sesso mostra ancora una volta un Faust'O maniaco sessuale, ma più che altro ossessionato/torturato dal rapporto con il sesso: si tratta di una sorta di sinistra, divertita dedica al proprio organo sessuale (Spesso ne ho bisogno/ Mi sfogo su di lui/ Ho paura sia il contrario/ Che sia lui a usare me).
Il motivetto sciocco della tastiera è pura minimal-wave (chiedere per informazioni agli Ultravox!), che si apre in strutture da classica ballata, restituita però in versione comicamente grottesca.
Innocenza è invece realmente una romantica ballata che potrebbe essere uscita dalla penna di un Brian Ferry in preda a un acido, crudele sarcasmo; il brano regala forse l'unico momento potenzialmente sentimentale del disco, seppure si tratti sempre di un sentimentalismo spazzato da un vento gelido (tanto che l'esito risulta straniante quanto quello degli altri brani).
Benvenuti fra i rifiuti è l'ultimo, definitivo atto d'accusa di Fausto, che mutua le atmosfere e le sonorità pesanti del gothic rock britannico per vomitare versi spietati contro la società bene (Quando sorge il sole/ Voi vi siete già stancati della vita).
Sembra di assistere a una sorta di incubo: Faust'O non risparmia nulla e nessuno (Riversiamo sperma sulle vostre inibizioni), neppure sé stesso. E siamo solo all'inizio.
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