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7/10

Chris Potter

The Sirens

Chris Potter, superata la soglia degli -anta, non ha perso il suo smalto, bello o brutto che sia.

Il sassofonista (tenore, ma anche baritono) di Chicago, che nel disco si dedica con risultati proficui anche al clarino basso, è un solista virtuoso che da quasi un trentennio (sì, è proprio così) cavalca la scena jazz midstream con risultati sorprendenti.

La sua abilità strumentale ha suscitato l'ammirazione di molti giganti: Paul Motian, Dave Holland, Kenny Wheeler e Wayne Shorter, tanto per fare alcuni nomi.

"The Sirens" è l'ultimo capitolo di una saga vasta e articolata che suscita consensi sin da metà anni '90. E nel complesso non delude, anche se ci sono alcuni "ma" che penalizzano il risultato finale.

Procediamo con ordine.

I punti di forza di Potter e della band sono lampanti: capacità strumentali non comuni, un linguaggio versatile, ricamato ed elegante. Craig Taborn che puntella i brani con lirismo ed efficacia, il batterista che dispensa saggi di bravura tecnica senza timori. I pezzi si sviluppano agili e improntati da un sano equilibrio: Potter evita sempre di varcare il confine, non deborda. I metri e lo sviluppo melodico suonano posati, si centellina ogni nota.

Eccoci quindi ai limiti del disco, che possono riassumersi nell'etichetta ECM. Chris non stupisce mai, sembra privo del quid pluris che trasforma un lavoro elegante e calligrafico in un disco entusiasmante.

Il problema, forse, è che è troppo bravo, e così evita accuratamente sbavature e sonorità fuori posto: questo rischia di ingessarlo un po' nel suo acrobatico perfezionismo. Altro difetto: qualche lungaggine di troppo. E poi il sound tipicamente ECM, quindi pulitissimo, che tende ad appiattire le peculiarità fisiche dei singoli strumenti, a cancellare le asperità, i rintocchi sui tasti, il suono del respiro.

Superare l'impatto con questa levigatezza smooth non è semplicissimo, per chi ama un altro tipo di jazz, perché obiettivamente la resa complessiva ne risente.

L'ispirazione dei musicisti, in ogni caso, è buona, e anche se il tema narrativo prescelto non brilla esattamente per l'originalità (il viaggio, o meglio l'Odissea, e quindi il canto delle sirene), Potter non annoia quasi mai.

L'impianto cameristico del gruppo, infatti, garantisce un piatto ricco e a suo modo gustoso: Potter e i suoi sposano la concezione colta sottesa agli sviluppi più recenti del jazz da camera, che si addentra in dinamiche ora post-bop, ora chiaramente cool, con il tradizionale approccio "pop" della ECM.

"Stranger at the Gate" è suadente e increspata da una lieve tensione di fondo, che spezza il tradizionale tema, pur senza esagerare. Altrove l'anima si perde un po' in giochi di prestigio sicuramente apprezzabili, ma che tendono ad appiattire il discorso: la title track, per dire, non mi porta a gridare di gioia, perché un filo imbalsamata e troppo precisa. Può strapparti un applauso formale, ma non lascia il segno. Anche "The Shades", nonostante il talento di Taborn, tenta invano di costruire un minimalismo credibile e toccante, ma i suoi rintocchi nel vuoto non graffiano, suonano studiati per.

"Dawn (with her Rosy finger)", pur peccando di manierismo, regala invece momenti di generoso romanticismo notturno, e si lascia assaporare con piacere, così come "Wayfinder", leggermente più aggressiva e groovy sia nelle percussioni che nel brillante fraseggio del sassofono tenore.

In conclusione, nulla di trascendentale, ma poteva andare peggio: questa musica per la musica non lascia solchi nell'anima, ma ha i suoi momenti, se ti coglie nel momento giusto.

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