Makaya McCraven
Highly Rare
A Chicago, Illinois, è la sera di domenica 20 novembre 2016. Le temperature sono pungenti, il freddo penetra nelle ossa. Il vero gelo, tuttavia, alberga altrove. Nonostante la città abbia scelto di appoggiare in massa (eufemismo) la candidatura di Hillary Clinton, sono periferie e profonda campagna a far pagare il salatissimo conto agli agglomerati urbani: da dodici giorni lAmerica ha scelto di diventare ancora una volta grande e non importa se saranno sogni di gloria grondanti sangue, marchiati a fuoco sulla pelle di chi non ha voce. Alla Dannys Tavern, luogo culto per turntablists e collezionisti di vinili, fa tappa Makaya McCraven, classe 1983, batterista jazz, padre afroamericano e madre ungherese lo spauracchio incarnato del trumpismo, praticamente. Curiosa e highly rare la motivazione: uninconsueta esibizione live in quartetto (Junius Paul al basso, Nick Mazzarella al sax alto, Ben Lamar Gay a cornetta, diddley bow e voci), completamente improvvisata e come tale filologicamente registrata su un vecchio quattro piste, in apertura al dj set del belga LeFtO.
Qualora ne abbiate avuto sentore, i punti di contatto col precedente, maestoso In The Moment possono comunque considerarsi già esauriti. Lì la moltitudine (dei concerti, dei musicisti, degli input sonori), qui un blocco granitico che non fa mistero della propria stolidità: lì il formato enciclopedico, qui lessenzialità, il dialogo circoscritto. Paralipomeni, questi, ad una batracomiomachia jazz hop del Nuovo Millennio, quella. La musica, anche: assai più oscura, vischiosa, resa slabbrata dal supporto di registrazione e dalle immancabili condizioni ambientali (anche qui il pubblico interviene, schiamazza, dialoga con gli strumentisti) e prepotentemente settata in proporzioni decisamente maggiori rispetto al passato sullasset ritmico (basti ascoltare lo straripante assolo di batteria che chiude il felpato cool hop di The Locator, fra Tricky, Dj Shadow e Archie Shepp). Risulterà una bestialità ma, più che jazz senso strictu, Highly Rare in più punti rassomiglia ad una produzione drumnbass che sia cresciuta e si sia sviluppata sotto lala protettrice della blackness. Sarà poi che orange is the new black, ma certi passaggi impro, gorgoglianti intrichi di bassi apparentemente irrilevanti nelleconomia della tracklist, sembrano rivestirsi di una semiotica spiritual, identitaria, à la Matana Roberts (Icy Lightning per I see darkness?), quasi le circostanze esterne abbiano urgentemente imposto di rivendicare la propria specifica alterità attraverso un medium comunicativo storicamente congeniale.
Il paziente e certosino taglia e cuci di McCraven in postproduzione (tutte le registrazioni sono state editate, arricchite e, in certi casi, modificate) riesce ancora una volta nellimpresa di regalare un disco godibilissimo, dare una nuova forma compiuta a del materiale che, con ogni probabilità, riflette solo in minima parte il reale stato di cose allora testimoniato. Così, la cornetta lamentosa che apre Venus Rising (un cripto-scat onomatopeico a celare un abbozzo di work song?) si dissolve e mescola fra i detriti di unintensa e granulosa meditazione psichedelica, un peana mistico che, inavvertitamente, si contrae tra gli spasmi dellincendiario interplay free jazz dei fiati (le due facce dello stesso Coltrane ). I fraseggi bebop incastonati nel solidissimo corpo ritmico di Above & Beyond (con refrain improntato ad un mimico, mesmerizzante call&response strumentale) sono, forse, la cosa che più si avvicina al concetto di singolo quello che, per capirci, Butterscotch poteva essere per il lavoro precedente: ad essi si contrappongono i rintocchi metallici del diddley bow nella torrenziale Left Fields, un gospel sotto mentite spoglie intrappolato in unorgia di beat e samples vocali a volumi crescenti, e le nudità espressive di una Early Bird Once Again praticamente ri(con)dotta a puro battito. Difficile, quasi impossibile ricostruire passo per passo la reale performance del quartetto di quella sera, ma certe pirotecniche finezze fusion calcolate al millimetro (R.F.J. III) non sono certamente solo prodotto di laboratorio: coesione, tiro e fantasia rimangono assolutamente formidabili.
Tra Makaya e Thundercat, oggi, non avrei dubbi su chi puntare. Sperando vada meglio che alla Clinton
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