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R Recensione

7/10

Machine Mass

Plays Hendrix

Se rifare Hendrix è il sogno d’ogni chitarrista, osare una rilettura evolutiva dei suoi classici può sembrare un azzardo che finora vanta non troppi precedenti. Aprendo a caso un po’ di cassetti mnemonici, e tralasciando le decine di covers ortodosse, salta fuori, ad esempio, un torrido medley elettro wave dei Soft Cell del secondo “The Art of Falling Apart” o, in tempi più recenti, la Quintorigo Experience con riletture fra jazz e avanguardia del gruppo emiliano in compagnia di illustri ospiti come Eric Mingus e Paolo Fresu.

L’approccio alla materia dei Machine Mass sembra frutto di una strategia articolata: se viene mantenuta la componente tematica dei celebri brani in scaletta, che rimangono quindi ben riconoscibili al primo ascolto, il contesto è completamente trasformato, tramite l’ eliminazione delle parti vocali e la costruzione di dilatati scenari psycho jazz rock che offrono spunto per ampie parti improvvisate di tutti gli strumenti. Una nuova prospettiva basata su quello che viene presentato come “ripensamento armonico” delle composizioni originali. Protagonisti dell’operazione sono due musicisti di area belga, Antoine Guenet alle tastiere e Michel Delville, chitarra ed elettronica, già artefici del gruppo avantgarde-jazz zappiano The Wrong Object ed un batterista con esperienze in campo jazz come Anthony Bianco (già al fianco di Dave Leibman ed Elton Dean). 

Si parte con una “Third Stone from the Sun” che riecheggia le stagioni jazz rock di Santana e  Mc Laughlin, si attendono sbucare “Purple Haze” e “Spanish Castle Magic” da caleidoscopiche introduzioni di un pianoforte jazz, si percorrono i territori saturi di dilatazioni fuzz che ospitano il tema di “Little Wing” per immergersi poi nel bollente calderone psichedelico di una “Voodoo Chile” che non risparmia bordate di metallo.  “Burning of the Midnight Lamp” ha un dinoccolato andamento funky condotto dalle tastiere di Guenet, che duettano con la chitarra anche nel celebre refrain e nelle fughe di “Fire”, mentre i dieci minuti di “You Got Me Floating” partono come un esercizio di libera e sfrenata improvvisazione elettrica, per lasciare spazio ad un’ estesa sezione dominata dalle tastiere che stempera la concitazione in una confort zone finale.

Chiude “The Wind Cries Mary” unica traccia con samples vocali e la struttura che, ricalcando da vicino l’originale, suona come omaggio finale all’arte del chitarrista di Seattle. Alla fine, tutto sommato, l’intento principale di questa impresa.

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