Goat
World Music
Il primo mestiere delle rockstar, naturale!, è fare le rockstar. Da sola, però, questa gratuita esibizione di intransigente superomismo può non bastare, per chi dell’ego ne fa questione psicologica e non solo paleo-grammaticale. Così subentra il lato sottile, giullaresco, infantile quando non apertamente viziato: il gusto di raccontare cazzate. Una professione a tutto tondo, una sfrenata competizione di estremismo liberale – Keynes si è già rizzato dal sepolcro per ascoltare meglio… – in cui vince chi la spara più grossa. Il giudice ricettivo, credulone, bonario è il feedback. Il pubblico. Il compagno di pinta al bar sotto casa, che ascolta ammirato, e senza mettere in dubbio nemmeno per un istante la genuina veridicità del resoconto, una mostruosa sfilza di panzane che trasgrediscono ogni ordine logico, razionale, di buon senso. Ma tant’è!, si è rockstar anche per questo: per farla credere agli altri, sempre e comunque. Far credere di essere benefattori, di contare qualcosa nel proprio ambiente, di essere grandi musicisti, di aver visto cose che voi umani, ad libitum. La fantasia al potere è l’unica regola di una matassa in movimento perpetuamente anarchico.
Potevano dire, con quel nome, di essere scesi sul pianeta blu per vendicare la memoria del rincitrullito Vikernes, tra una chiesa consegnata alla memoria delle fiamme ed una scatola cranica gentilmente sollevata con il beneplacito di una canna mozza. L’hanno invece conciata ancora più inverosimile, i Goat di Korpilombolo, minuscola località di seicento abitanti nella Svezia nord-orientale in prossimità Finlandia che, da sola, toponomastica alla mano, grazie a quella posizione, sarebbe riuscita a calamitare una foriera inestinguibile di dicerie e leggende. Non è necessario riportare, per l’ennesima volta, genesi e sviluppo del who-made-what, del resto facilmente rintracciabile tra le selezionate informazioni disponibili sul collettivo. Altro non ci è dato sapere. Molto ci è dato ascoltare. “World Music” la mette giù anch’esso pesante, con un titolo che è ambizione, dichiarazione d’intenti ed ossimoro cultural-geografico. A stupire, assai, è il fatto che sia tutto vero. L’onestà che proprio non ti aspetti e le wannabe rockstar che calano, per una volta, la maschera, in favore della loro arte.
Sibillina sul nascere, ma solida e spietata come una detonazione in una cristalleria, “Diarabi” è la miccia che scatena l’incendio, una fucilata di cocciuto afro-fuzz orientaleggiante sotto i tre minuti. La chiave del mistero: un giro. Un solo giro. Ripetuto ancora, ed ancora, ed ancora. Over and over again. Come un raga psichedelico. Anzi, no: come una danza aborigena. Oppure, intuizione: gamelan indonesiano! In Svezia. “Goatman”, come una valanga, segue a ruota: e se è difficile districarsi in una matassa chitarristica che tracima sporcizia e distorsione da tutti i pori (c’è il riverbero ustionante del funk ed un certo gusto rumoristico garage-beat, roba da Nuggets o giù di lì), una voce femminile squilla con urgenza ed insolenza, come se il Group Doueh dovesse comporre la soundtrack per una battle in the desert come Goat comanda. Della capra si predica anche il feticcio cervicale, in un blues scoperchiato dal wah wah – caotico assolo distrutto dal talkin’ box compreso nel prezzo – e rimasticato in un urlo che è essenza pura del linguaggio tribale, prima dell’improvviso ripiegamento acustico (il griot invasato di “Goathead”) che contamina, in ultimo, la torch song per campanellini e falò maledetti di “Goatlord”, Chelsea Wolfe trapiantata in Niger.
“World Music” rimescola tre idiomi per trentasette minuti. In quantità diverse, con percentuali e prominenze calibrate di volta in volta. Ma sempre di tre idiomi si parla. Dove non arriva la chitarra passa l’organetto, e nasce lo spastico psych da balera di “Disco Fever”, groove sottile ma incessabile, così come hanno insegnato e largamente dispensato le vecchie hit su cassa dritta degli anni ’70. “Golden Dawn” è una spy story dalla straordinaria effettistica surf, dove il trascinante riff funk si disgrega in un lungo e selvaggio assolo hendrixiano (BLK JKS, tornate insieme). “Let It Bleed” è un jolly di soul corale con segmentazione afro, qualcosa che i padri Amanaz riascolterebbero rapiti, mandato al macero in una coda di iterazione strumentale e distonia free jazz: nient’altro che prove tecniche di riproduzione per il capolavoro di sintesi di “Run To Your Mama”, Black Joe Lewis al femminile mattatrice assoluta, su di un proscenio nudissimo fatto di una sola nota e un solo timbro percussivo (impressionante l’ipnosi monocroma di quarantacinque secondi che, di fatto, si divora l’intero brano). Destino dell’omogeneità è che tutto, al suo termine, ritrovi la sua compensazione, si riprenda la posizione originaria: e l’acidità ricorsiva di “Det Som Aldrig Förandräs / Diarabi” non fa altro che rimpastare, con proiezione potenzialmente infinita, il tema d’apertura, sino a terminare in pompa magna un dirty job nato dalla polvere e dal sudore.
Come rockstar balliste, d’uopo dirlo, i Goat sono morti sul nascere. Fortuna che questa non è ancora una discriminante decisiva per scrivere dischi veramente irresistibili.
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