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R Recensione

5/10

Earthless

From The Ages

Sul palco del festival heavydelico più famoso al mondo, nel 2008, salutarono timidamente il pubblico, ancora non ben consapevoli di essere stati eletti loro malgrado headliner, e attaccarono a suonare. Un torrente di note, un uragano di distorsioni. In un'ora e un quarto di continuo polimorfismo, gli Earthless tolsero alla parola ogni sua funzione comunicatrice. Sostituirono all'oralità l'auralità, ossia, il rimestio instancabile ed incessante dei soliti noti in forme di volta in volta adattate al contesto e all'occasione. Coniugarono lunghissimi e logorroici assoli di chitarra. Declinarono devastanti sezioni ritmiche. Riscoprirono, a guisa di punteggiatura, l'efficacia del delay. Elevarono l'hard rock a vetrina di talento strumentale e capacità iconografica, liberandolo dall'onerosa zavorra di dover costruire canzoni, ad ogni costo.

Cosa succede quando si cerca di criogenizzare in solchi la fantasia e l'imprevedibilità delle mille variabili on stage? Con sincera curiosità poniamo la domanda ai tipi di Tee Pee, non nuovi a queste sortite: con un pizzico di apprensione, a chi deciderà di lanciarsi nell'ascolto di “From The Ages”; infine, con perplessità, agli Earthless stessi, arrivati oggi al terzo full length. A quella macchina da guerra che, una volta lanciata, si dimostra – nel bene e nel male – incapace a contenersi. La goduria dell'esibizione dal vivo, ci giochiamo quanto di più caro al mondo, è inversamente proporzionale al tedio dell'andamento non lineare, arruffato, mastodontico della dimensione studio. Non ci riferiamo tanto alla lunghezza: non spaventa (quasi) più nessuno trovare un'ora di musica spalmata su appena quattro tracce – non chi, almeno, ha molto amato gli allora Sleep o, più di recente, si è dato una ripassata alle ultime mosse di The Atomic Bitchwax. Più volentieri parliamo, invece, di quella gerarchia minimale, per la quale riesce fluido anche l'amalgama caparbiamente anarchico.

From The Ages” non regala un solo, singolo attimo di tregua. Fintanto che scorrono i wah straziati e catatonici di “Equus October” (nemmeno sei minuti e, manco a dirlo, episodio migliore del disco) non c'è alcun problema. Passi anche la cantica hendrixiana di “Violence Of The Red Sea”, con perfetto riff claptoniano d'apertura, stucchevole profluvio di solipsismi nel mezzo ed entusiasmante risalita in coda: i Black Keys suonati, durante una corrida, al triplo della velocità. L'onnipresenza della sei corde di Isaiah Mitchell comincia a pesare quando, al netto di un piglio greve, struggente ed arcigno, “Uluru Rock” non mantiene le promesse e si dilunga, per un quarto d'ora, nell'esplorazione del fraseggio acid blues in tutte le salse. Peccato di vanità e limite del genere: ci può stare. La riproposizione della title track, già contenuta nel summenzionato “Live At Roadburn”, sconfina però nel totale autocompiacimento: pare di sentire i virtuosismi dei Seven That Spells stirati al limite del ripetibile (il blocco conclusivo, che itera un solo giro per oltre quattro minuti, è da sbadigli non simulati), i Nebula incastrati negli Stoned Jesus, tutto lo scibile stoner degli ultimi dieci anni portato al punto di non ritorno. Dietro le pelli, un ottimo Mario Rubalcaba, già negli OFF!, per quanti colpi mulini e quanti registri cerchi di intersecare fra loro, non riesce a non far calare drammaticamente l'attenzione.

Senza terra, si fan chiamare loro. Senza idee, potrebbe sentirsi in dovere di chiosare qualcun altro...  

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C Commenti

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Cas alle 19:21 del 22 novembre 2013 ha scritto:

una scena che non ha più molto da dire questa, mi sembra...

Marco_Biasio, autore, alle 20:00 del 22 novembre 2013 ha scritto:

Non saprei. Nel senso, a me piace sempre molto ascoltare dischi del genere. Ciò che trovo insopportabile è il solipsismo in sé e di per sé... E qui ce n'è, ahimè, a palate. Ammazza la carica e il fascino. Può funzionare dal vivo (per questo ho citato i Seven That Spells) ma non su formato fisico - almeno, non per me.